Le montagne russe trumpiane hanno prodotto lo “strappo” del G7 (ormai diventato un G6, secondo Macron). È da prendere sul serio? Impossibile saperlo, perché col presidente americano siamo ormai abituati al fatto che quello che dice al mattino lo smentisce al pomeriggio e lo rismentisce alla sera, a seconda di chi incontra sulla sua strada o dei programmi che guarda alla TV. Donald Trump non ha una strategia, e non ha nemmeno una tattica, e neppure un’idea di quello che dirà stasera; ma di sicuro ha interiorizzato un concetto chiave della propaganda, secondo gli insegnamenti di Edward Bernays: creare circostanze che si smarcano dalla norma sociale e che dunque attirano l’attenzione.
La sua sortita sulla possibilità che la Russia torni a far parte del G7 si apparenta a questo concetto – che asseconda il suo narcisismo patologico – non a un progetto politico. Trump non può fare a meno di ammirare Putin (come pure al Sissi, Xi Jinping, gli sceicchi sauditi, Duterte e certamente anche Kim Jong Un) perché vorrebbe essere come lui, averne la stessa autorità, lo stesso rispetto, e la stessa corte di ossequiosi e tremebondi yesmen – non per ragioni politiche. Ma che Putin lo possa manovrare è, a seconda del punto di vista, un’assurdità o un’ovvietà: un’assurdità, perché manovrare un personaggio così volubile è impossibile per chiunque (e comunque, negli Stati Uniti esistono ancora dei checks and balances efficaci per stoppare ogni tentativo grossolano di ingerenza esterna); un’ovvietà, perché la politica estera americana si è arenata, e tutti ne stanno traendo vantaggio (o almeno ci provano), Putin incluso, ovviamente.

Il guaio degli Stati Uniti però non è Trump. Il guaio è una tendenza isolazionista intrinseca all’American way of thinking, che è stata abbandonata solo all’epoca della guerra fredda e che, dalla fine della guerra fredda in poi, gli americani si chiedono quando tornerà, quando ci sarà, finalmente, il tanto sospirato return to the normalcy. Trump è stato eletto su una piattaforma apertamente isolazionista, e siccome il suo unico orizzonte è quello elettorale, tutto ciò che va nella direzione dell’isolazionismo non può che favorirlo elettoralmente (e i democratici lo rincorrono affannosamente, scandalizzati soprattutto perché si sentono defraudati di quella che è sempre stata la loro arma elettorale).
Il vertice di Singapore può produrre qualunque risultato. La conclusione del G7 dimostra che Trump arriva con un’idea, ne manifesta un’altra, e quando se ne va ne tira fuori un’altra ancora. Per gli Stati Uniti, si tratta di un esercizio diplomatico quantomeno spericolato, perché dovrebbe tenere in conto tutte le variabili che sono legate al caso Corea del Nord – che sono molteplici e contraddittorie. Per Trump, si tratta invece di un altro palco da cui esibirsi ai suoi elettori, con la confessata speranza che questo gli valga almeno il premio Nobel.
Da un punto di vista storico, gli Stati Uniti sono in piena crisi di disorientamento, dovuta al loro declino relativo, e non sanno che pesci pigliare: un personaggio come Trump, oggi, li rappresenta alla perfezione.