Manlio Graziano, già columnist della Voce di New York, ha appena pubblicato il libro: L’isola al centro del mondo. Una geopolitica degli Stati Uniti, Il Mulino, 2018
Questo articolo è stato già pubblicato dalla rivista italiana d’Intelligence “Gnosis” che ringraziamo per la gentile concessione.
Il dibattito sul declino degli Stati Uniti è privo di contenuto. O, se si vuole, ne ha troppi, e il risultato è lo stesso. Per sostenere le ragioni degli uni e degli altri (declinisti vs. antideclinisti, con tutte le gradazioni intermedie), ciascuno prende in considerazione aspetti diversi della realtà politica, economica e sociale del paese; a seconda del punto di partenza, quindi, è possibile dimostrare tutto e il contrario di tutto.
Per sottrarre il dibattito al soggettivismo arbitrario e inconcludente, occorre fondarlo su un criterio incontestabile, l’unico che conti veramente nelle relazioni internazionali: il confronto con le altre potenze. Appare, così, che negli Stati Uniti è in corso – almeno dagli anni 1960 – un declino relativo: la loro forza economica, in termini assoluti, continua a crescere (quindi non c’è declino) ma, al tempo stesso, quella dei suoi rivali e competitori aumenta a ritmi più sostenuti (quindi c’è un declino relativo). Essendo il potere nel mondo una quantità finita (in espansione, ma comunque finita), più aumenta quello delle potenze concorrenti e più diminuisce, in termini relativi, quello degli Stati Uniti.
Tra il 1940 e il 2014, in termini di prodotto lordo, gli Usa sono cresciuti dodici volte e mezzo (quindi non c’è declino), mentre il resto del mondo ventisei volte: più del doppio (quindi c’è un declino relativo). Questa la rappresentazione grafica di quel movimento (1940=100):
Quando, nel 1987, Paul Kennedy pubblicò il suo celebre The Rise and Fall of the Great Powers – che inaugurò il dibattito sul declino – quel divario era appena percettibile: il Pil americano si era moltiplicato per sei dal 1940, e quello del resto del mondo sette e mezzo. Il che non impedì allo storico di Yale di individuare con precisione il fenomeno, iscriverlo nella tendenza storica e prospettarne le inevitabili conseguenze.
Ci si potrebbe ragionevolmente domandare se il differenziale di crescita del prodotto lordo possa, da solo, dar conto del declino di un paese, ancorché relativo. Molti altri elementi sono presi in considerazione quando si devono misurare i rapporti di forza reali tra due o più potenze: fattori economici variabili, come l’accesso alle materie prime e il loro prezzo, i trasporti, la ricerca e sviluppo, la produttività, la finanza, il commercio e gli investimenti; e poi la situazione geografica, la forza militare, la demografia, le condizioni sanitarie, l’istruzione, la solidità delle istituzioni e la stabilità politica; infine, i fattori non misurabili, ma non per questo meno importanti, come l’eredità storica, le tradizioni, la psicologia sociale, le ideologie e le religioni. Lo stesso Kennedy riconosceva che, per cercare d’individuare le cause del declino di una grande potenza, «the evidence of the past is almost always too varied for ‘hard’ scientific conclusions»; tuttavia, proseguiva, se si prende in considerazione la storia degli ultimi cinque secoli, si possono trarre «some generally valid conclusions». La prima è che:
There is a detectable relationship between the shifts which have occurred over time in the general economic and productive balances and the position occupied by individual powers in the international system1.
Per gli Stati Uniti, la sfida strategica di quella «valida conclusione» consisteva nell’impossibilità di continuare a far fronte a «a vast array of strategical commitments which had been made decades earlier, when the nation’s political, economic, and military capacity to influence world affairs seemed so much more assured»2. Da ciò conseguiva che gli Usa dovevano far fronte a «what might roughly be called ‘imperial overstretch’», e cioè:
Decision-makers in Washington must face the awkward and enduring fact that the sum total of the United States’ global interests and obligations is nowadays far larger than the country’s power to defend them all simultaneously3.
Molti critici di Paul Kennedy hanno fatto notare che le sue «previsioni» si fondavano sull’irresistibile ascesa del Giappone all’epoca, in un contesto internazionale ancora dominato dal bipolarismo Usa-Urss; la scomparsa di quelle due condizioni negli anni Novanta avrebbe dunque rapidamente reso obsoleta la sua ipotesi. Tali critiche fanno pensare a coloro che guardano il dito quando il saggio indica la luna: Paul Kennedy segnalava una tendenza storica che, come mostra il grafico, non ha fatto che accentuarsi, malgrado la scomparsa dell’Urss e i «decenni perduti» del Giappone.
Nel 2008, nel suo quadriennale rapporto sulle tendenze internazionali in atto, l’US National Intelligence Council (Nic) scriveva, tra le altre cose, che «owing to the relative decline of its economic, and to a lesser extent, military power, the US will no longer have the same flexibility in choosing among as many policy options»4. Con vent’anni di ritardo, lo «strategic thinking» della Casa Bianca prendeva atto del risvolto pratico di quanto descritto con estrema chiarezza da Kennedy nel 1987.
Nel formulare la sua tesi sul declino relativo, Kennedy riprendeva un concetto formulato da Robert Gilpin in un altro fondamentale testo sull’argomento: «In time, the differential growth in power of the various states in the system causes a fundamental redistribution of power in the system»5. Quello stesso assunto servì dieci anni dopo a Richard Haass per motivare la sua tesi sulla necessità di prendere in controtempo tutti i competitori e di assicurarsi una posizione di vantaggio dalla quale contrattare i tempi del declino. Bisognava giocare di anticipo, scriveva Haass, in modo che «any new ‘balance’ is in fact ‘balanced’ from our perspective». Anche se Haass esprimeva ampie riserve in merito, il suo testo contribuì alla discussione sulla guerra preventiva, che si materializzerà pochi anni dopo – quando Haass sarà responsabile della pianificazione politica al Dipartimento di Stato – con l’attacco all’Iraq.
Il comune riferimento alla tesi di Gilpin non è fortuito. In uno studio apparso nel 2011, Paul MacDonald e Joseph Parent hanno sostenuto che, per far fronte a «a decline in relative power», esistono solo due possibilità: il retrenchment o la guerra preventiva6. MacDonald e Parent definivano il retrenchment come «redistributing resources away from peripheral commitments and toward core commitments» al fine di «economizing expenditures, reducing risks, and shifting burdens». Era, di fatto, il suggerimento implicito di Kennedy e la constatazione del documento del Nic del 2008, ed è stata la linea guida della politica estera di Barack Obama; l’attacco preventivo era la tesi in filigrana di Richard Haass – e molto più esplicita in altri documenti apparsi alla fine del secolo scorso – ed è stata la linea guida della politica estera di George W. Bush. Nel caso degli Stati Uniti, però, la risposta a «a decline in relative power» presenta anche una terza possibilità, molto più affine alla tradizione ideologica americana, dal Farewell Address a Donald Trump: l’isolazionismo.
Tre precisazioni sono qui d’obbligo. La prima è che se l’isolazionismo è lo stadio supremo del retrenchment, le due politiche non possono essere confuse tra loro. Il retrenchment distingue tra «peripheral commitments» e «core commitments»: non si tratta quindi di abbandonare i commitments, ma di operare delle scelte, comunque sempre dolorose, sulla base di una strategia politica ben definita. Si tratta, per dirla con Kissinger – a proposito di Nixon – «to find a sustainable ground between abdication and overextension»7. Si tratta, per dirla con un’altra metafora, della differenza tra ritirata ordinata e catastrofica rotta.
Seconda precisazione: le ansie provocate dal timore di un peggioramento delle condizioni materiali di esistenza nascono dalla fondamentale incomprensione dei processi in corso che, proprio per questo, vengono sommariamente imputati al complotto esterno e al tradimento interno, rinnovando i fasti del «paranoid style» della vita politica americana8. Sul banco degli imputati si trovano oggi la «globalizzazione» e le sue quinte colonne interne, i «globalists». Ma l’antiglobalismo di Donald Trump non è un’invenzione sua o dei suoi variopinti ideologi; anzi, ci si potrebbe spingere fino ad affermare che Donald Trump altro non è che la «forma politica finalmente scoperta» dei manifestanti di Seattle contro il libero commercio del 1999. Che il «piatto forte» del programma di Trump sia stato cucinato nei laboratori intellettuali dell’estrema sinistra è solo apparentemente paradossale. Infatti, la matrice dell’isolazionismo e delle tesi che contrappongono le virtù della piccola produzione ai vizi del capitalismo maturo si trova nella democrazia jeffersoniana – variamente riletta e reinterpretata – passando per Andrew Jackson, il movimento populista di fine Ottocento, i critici cattolici di estrema destra e di estrema sinistra al tempo di Franklin D. Roosevelt, gran parte della galassia protestataria degli anni Sessanta, per arrivare fino a Seattle e a Donald Trump.
Terza precisazione: più in generale, la tentazione isolazionista nella sua versione attuale è riemersa con la fine della Guerra fredda, quando gli americani ebbero l’impressione che le ragioni che li avevano costretti all’«innaturale» entanglement negli affari mondiali fossero venute meno, e che fosse finalmente giunto il momento di ritirarsi nella loro isola a godere i dividendi della vittoria. Già verso la fine del secondo mandato di Bill Clinton, erano state prese alcune decisioni in quella direzione, come il rifiuto di firmare il protocollo di Kyoto, di partecipare al Trattato per il bando delle mine antiuomo e degli esperimenti nucleari e di votare la creazione della Corte penale internazionale. Prima dell’11 settembre, George W. Bush fu apertamente isolazionista e unilateralista, proclamando la sua intenzione di ritirare gli Stati Uniti da alcune delle istituzioni da loro stessi create e che avevano garantito la continuità del loro ordine mondiale.
Gli attacchi dell’11 settembre hanno solo momentaneamente sospeso quella tendenza. Le ansie provocate dalla crisi del 2008, moltiplicate per gli effetti nefasti degli sconsiderati interventi in Afghanistan e in Iraq, l’hanno ripristinata. Durante la presidenza di Barack Obama, gli Stati Uniti hanno adottato 317 misure protezioniste in media ogni anno, cioè il 20% di tutte le restrizioni al commercio adottate nel mondo, quasi sei volte di più del secondo paese più protezionista, l’India. E durante la campagna elettorale del 2016, entrambi i candidati si erano espressi per il ritiro degli Stati Uniti dai due trattati di libero scambio nel Pacifico e nell’Atlantico, faticosamente negoziati dall’amministrazione uscente; una posizione sostenuta con ancora maggior vigore dal «socialista» Bernie Sanders.
L’idea di poter «make America great again» è assurda perché, banalmente, la storia non cammina all’indietro. Quando gli americani pensano alla loro grandezza si riferiscono, in generale, a un’epoca ormai andata in cui il loro paese dominava solitario e incontrastato gli equilibri economici, politici e militari del mondo, e il suo soft power – sostenuto da investimenti colossali fuori della portata dei suoi competitori – veicolava attraverso un’invidiabile e invidiata rappresentazione del moderno eldorado, l’American way of life. Era un’epoca in cui la loro ineguagliabile superiorità materiale alimentava la loro pretesa superiorità morale e consentiva più opzioni di politica estera; d’altronde, molti dei più drammatici errori commessi dagli Stati Uniti durante la Guerra fredda derivano proprio dalla convinzione di poter plasmare la realtà, di poter agire senza dover tenere conto dei fastidiosi vincoli materiali e immateriali che, nel mondo reale, ingabbiano, condizionano e distorcono la volontà politica.
In particolare, l’assenza di profondità storica che caratterizza l’ideologia americana, coniugata alla rootlessness e all’eterogeneità della popolazione, contribuisce a conferire a ogni avvenimento un valore assoluto e quindi riproducibile in qualsiasi circostanza. Per gran parte della loro breve storia (praticamente fino al 1944), gli Stati Uniti sono stati protezionisti, e proprio allora si è costruito il loro successo: così, l’idea che il protezionismo possa essere una ricetta per tornare alla grandezza perduta fa facilmente breccia nello spirito americano. Quando ci si astrae dalle specifiche contingenze storiche che hanno reso possibile una politica piuttosto che un’altra, si finisce inevitabilmente per pensare che quella politica sia applicabile in qualsiasi momento. I neokeynesiani ragionano nella stessa maniera: quando pensano di poter ribaltare le tendenze in atto ripristinando la ricetta del New Deal, cioè riavviando il ciclo del deficit spending, fanno astrazione del fatto che, prima della crisi del 1929, il debito pubblico americano ammontava al 16% del Pil; che nell’anno in cui Roosevelt fu eletto era al 19%; che al momento dell’entrata in guerra, nel 1941, era al 45%; nel 2008, quando Keynes è tornato di moda, il debito pubblico era al 68% del Pil; l’anno dopo all’83% e, alla fine del mandato di Barack Obama, al 106,7%. Anche i keynesiani immaginano un mondo che non esiste più e, in fondo in fondo, credono che sia possibile «make America great again».
L’illusione, per gli uni e per gli altri, è di poter «make America great again» a credito. In parte, grazie alla collocazione internazionale del debito pubblico: dei 20.245 miliardi di dollari di debito della gestione fiscale 2017, quasi un terzo (6349) era in mano a governi stranieri, innanzitutto quello di Pechino (1189 miliardi) e di Tokyo (1094)9. In altri termini, nel 2017 la Cina e il Giappone hanno provveduto a finanziare più del 10% della spesa pubblica americana. La sostanziale indifferenza verso il debito è forse la prova più patente dell’incomprensione delle tendenze in corso. In un’intervista durante la campagna elettorale, Trump ha affermato: «You never have to default because you print the money, I hate to tell you, ok?»10. L’opzione «rotative», però, significherebbe non solo creare problemi all’economia cinese e giapponese (un’opzione che l’amministrazione Trump sembra abbracciare volentieri, senza considerare che il benessere americano è legato a quello cinese e giapponese), ma anche prosciugare tutte le sorgenti di finanziamento del debito, mettendo in moto una spirale inflazionista che non farebbe altro che aggravare le apprensioni, e le condizioni di esistenza, degli americani.
L’illusione di poter «make America great again» attraverso il protezionismo non solo collide con la precedente, ma è anche la strada più breve per provocare danni irreparabili. In un mondo ormai basato sulla compenetrazione e sullo scambio di materie prime, prodotti finanziari, idee e persone, quasi ogni tipo di produzione è legato da mille fili al mercato mondiale, e spezzarne uno significa spezzarli tutti e rendere impossibile ogni tipo di produzione. È stato calcolato che persino alla confezione di un hamburger concorrono – tra coltivazione, stoccaggio, trasporto, raffinamento, produzione, imballaggio e distribuzione – 75 centri di attività di 15 paesi diversi11. Insomma, voler interrompere i flussi incrociati di materie prime, prodotti semifiniti, prodotti finiti e manodopera equivale a tagliare le vene del corpo economico mondiale.
Perdipiù, il «Wall Street Journal» ha ricordato recentemente la «Newton’s third law of global politics, which is that for every action, there is an equal and opposite reaction»12; in altri termini, se è vero che gli Stati Uniti hanno il deficit commerciale più elevato, è anche vero che sono la seconda potenza esportatrice del mondo: tra il 2008 e il 2017, hanno adottato 1355 misure restrittive all’importazione, ma ne hanno subite 242913. Secondo una valutazione del Boston Consulting Group del luglio 2017, un attacco al North American Free Trade Agreement (Nafta) sarebbe innanzitutto un attacco agli Stati Uniti: data l’integrazione economica ormai raggiunta con il Messico, limitare le importazioni da quel paese «would probably kill thousands of US auto jobs»14. Per Gordon Hanson, dell’Università di California, se non ci fosse stato il Nafta l’intero settore automobilistico americano sarebbe già scomparso, spazzato via dalla concorrenza dei paesi con salari, protezione sociale e deficit pubblici più bassi15.
Gli Stati Uniti sono oggi attanagliati da una morsa psicologica d’inquietudine e di frustrazione, diventata cronica dopo che la crisi del 2008 ha messo in chiaro che gli americani non potranno più permettersi di vivere in futuro come hanno fatto nel passato. È un’inquietudine presente in tutti i paesi che hanno dominato i mercati mondiali negli ultimi secoli e che vedono ora il loro monopolio – e con esso i privilegi che ne derivano – contestato da nuove potenze emergenti; ma è molto più intenso negli Stati Uniti, la cui breve storia è stata contrassegnata dalla promessa, quasi sempre mantenuta, di un miglioramento costante delle condizioni di vita della maggior parte dei suoi cittadini.
Kissinger ha scritto che l’arte della demagogia consiste nell’«ability to distill emotion and frustration into a single moment»16. Donald Trump ha vinto le elezioni perché è indubbiamente stato il migliore in quest’arte. Ma la demagogia non ha mai potuto risolvere i problemi di una società, semmai li ha aggravati.
Le distanze tra Stati Uniti e paesi detti «emergenti» continuano ad accorciarsi: secondo il World Economic Outlook del Fmi dell’ottobre 2017, il ritmo di crescita di questi ultimi (4,3% nel 2016, 4,6% nel 2017 e 4,9% nel 2018) continua a essere più del doppio di quello degli Stati Uniti (1,8%, 2,1% e 2,3%); e quello della Cina è circa tre volte superiore (6,7%, 6,8% e 6,5%). Anche se il Pil non può essere la sola unità di misura dei rapporti di forza tra le potenze, resta comunque la più significativa per dar conto non solo della tendenza in atto, ma anche delle sue ripercussioni materiali e psicologiche. Tuttavia, se anche dovesse superare il prodotto reale degli Stati Uniti, la Cina difetterebbe ancora di troppi requisiti per poter sperare di soppiantare a breve l’antagonista come potenza egemone a livello globale e come crocevia degli equilibri internazionali.
Richard Nixon aveva preso atto già nel luglio 1971 del fatto che «the United States no longer is in the position of complete pre-eminence or predominance», aggiungendo: «That is not a bad thing». Aveva preso atto, insomma, dell’esistenza di un mondo multipolare. C’è da dire che le relazioni internazionali sono sempre multipolari, nel senso che vi prendono sempre parte più poli di potenza, anche se quella che essi sono in grado di esprimere è, per forza di cose, diseguale. Come scrisse Spykman:
The realm of international politics is like a field of forces comparable to a magnetic field. At any given moment, there are certain large powers which operate in that field as poles. A shift in the relative strength of the poles or the emergence of new poles will change the field and shift the lines of force17.
Oggi «a shift in the relative strength of the poles» si combina con «the emergence of new poles»: le linee di forza si stanno dunque spostando e il campo delle relazioni internazionali sta cambiando a un ritmo straordinariamente rapido. Non vi è una legge generale che stabilisca come, quando – e se – un paese in declino relativo entri in una fase di declino assoluto. Proprio perché relativo, il declino può anche, teoricamente, rovesciarsi nel suo contrario. Fareed Zakaria ritiene che il mondo stia diventando sempre più «post-americano» non per effetto di un supposto declino degli Stati Uniti, ma a causa del «the rise of everyone else»18: se, per una ragione o un’altra, la Cina, o l’India, o la Germania dovessero entrare in profonda crisi, gli Stati Uniti si potrebbero trovare in una condizione di ascesa relativa. Si deve tuttavia convenire che si tratta di un’ipotesi assai implausibile, perché presuppone l’assai remota possibilità che gli Usa non sarebbero contagiati da una crisi profonda in Cina, in India o in Germania.
È molto più plausibile che l’America prosegua nel suo declino relativo, ciò che l’obbligherà comunque a rinunciare ad alcuni dei propri impegni e dei propri interessi su scala globale, creando ineluttabilmente squilibri locali anche molto gravi. Che sarebbero però poca cosa se paragonati agli squilibri globali che si creerebbero se gli Stati Uniti dovessero ritirarsi da tutti gli impegni e interessi in un colpo solo. È già successo, negli anni Venti e Trenta, e molti storici hanno attribuito all’isolazionismo di allora parte delle responsabilità di quello che successe subito dopo; oggi, però, i disastri sarebbero incommensurabilmente più gravi, perché un conto è rifiutarsi di partecipare all’ordine mondiale quando si è gli unici che lo potrebbero garantire; un altro è ritirarsi dopo averlo garantito per più di settant’anni, senza che vi sia un successore alle viste. La politica, come la natura, ha orrore del vuoto, ma in questo caso si tratterebbe di un vero e proprio buco nero, in cui verrebbero aspirati tutti gli altri attori mondiali. Le residue illusioni insulari americane sarebbero ben presto sommerse dallo tsunami che ne seguirebbe. Un tale strappo significherebbe semplicemente trasformare il declino relativo in declino assoluto; in altri termini, un «suicide from fear of death».
Bibliografia
R. Gilpin, War and Change in World Politics, Cambridge University Press, Cambridge 1981.
R. Hofstadter, The Paranoid Style in American Politics and Other Essays, Vintage Books, New York 2008.
P. Kennedy, The Rise and Fall of the Great Powers. Economic Change and Military Conflict from 1500 to 2000, Random House, New York 1987.
H. Kissinger, Diplomacy, Simon & Schuster, New York 1994.
F. Zakaria, The Post-American World. And the Rise of the Rest, Penguin Books, London 2009.
Note
Kennedy 1987, p. XXIV.
2 Ibidem, p. 665.
3 Ibidem, p. 666.
4 US Nic, Global Trends 2025: A Transformed World, Washington DC, US Government Printing Office, novembre 2008, p. 93. In realtà, la spesa militare stava crescendo sia in termini assoluti che relativi, essendo passata, durante la presidenza di George W. Bush, da 335 a 696 miliardi di dollari, e dal 28,7 al 39,8% del totale mondiale; il picco fu toccato sotto l’amministrazione Obama nel 2010, con 721 miliardi di dollari, e l’anno successivo in termini relativi, con il 41,8% del totale mondiale.
5 Gilpin 1981, p. 13.
6 P. MacDonald ‒ J.M. Parent, Graceful Decline? The Surprising Success of Great Power Retrenchment, «International Security», vol. 35, n. 4 (Spring 2011), pp. 7-44.
7 Kissinger 1994, p. 704.
8 Cfr. Hofstadter 2008.
9 <https://www.usgovernmentspending.com/federal_debt> [09.02.2018].
10 Dichiarazione a Cnn, 10 maggio 2016. <http://edition.cnn.com/2016/05/09/politics/donald-trump-national-debt-strategy/index.html> [09.02.2018].
11<https://forest500.org/supply-chain-graphic> [09.02.2018].
12 Editoriale Mexico Responds to Trump: Our Southern Neighbors Aren’t Rolling over to His Political Demands, «The Wall Street Journal», 25 febbraio 2017.
13 Dati Global Trade Alert.
14 Citato in A. Campoy, The US’s Proposals for Bringing Back Auto Jobs Would More Likely Kill Them Instead, «Quartz», 19 luglio 2017.
15 E. Porter, Nafta May Have Saved Many Autoworkers’ Jobs, «The New York Times», 29 marzo 2016.
16 Kissinger cit., p. 289.
17 N.J. Spykman ‒ A.A. Rollins, Geographic Objectives in Foreign Policy I, «The American Political Science Review», vol. 33, n. 3 (giugno 1939), pp. 391-410.
18 Zakaria 2009, p. 1.
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