Libia e migranti: dove eravamo rimasti? Chi segue La Voce di New York si ricorderà che, durante la presidenza italiana del Consiglio di Sicurezza ONU, ci siamo lungamente e approfonditamente occupati dell’annosa questione dell’accordo che il Governo italiano strinse, a febbraio dell’anno scorso, con Tripoli, per bloccare le partenze dei migranti e contribuire, così facendo, a contenere il flusso migratorio verso l’Italia (e l’Europa). Un’iniziativa che aveva previsto l’impegno italiano nell’addestrare la Guardia Costiera libica, nonostante quest’ultima fosse stata precedentemente accusata, da più parti, di coordinarsi con gli stessi trafficanti di esseri umani.
Un accordo duramente contestato da attivisti e organizzazioni umanitarie, per le tragiche conseguenze umane che ha comportato: migranti imprigionati in centri di detenzione più volte paragonati a lager nazisti, molti dei quali neppure controllati dal governo centrale di Tripoli, ma da milizie rivali. E proprio durante la presidenza italiana del Consiglio di Sicurezza, che ha avuto l’indiscusso merito di portare sui tavoli della diplomazia internazionale la questione migratoria nel Mediterraneo, l’argomento è stato sollevato più volte e con severità: al punto che l’Alto Commissario per i Diritti umani ONU, il principe giordano Zeid Rad al-Hussein, ha definito l’accordo stretto tra Libia e UE (sottinteso, con in prima fila l’Italia) “inhuman”. Qualche giorno dopo, alcuni video pubblicati della CNN attestavano come i migranti venissero venduti nel Paese come veri e propri schiavi.
Eppure, proprio la presidenza italiana del Consiglio di Sicurezza si era chiusa con la (finalmente buona) notizia di una iniziativa dell’UNHCR, fortemente sostenuta dal Governo italiano, per “allestire una struttura di transito e partenza a Tripoli per persone che hanno bisogno di protezione internazionale”, che, si era detto, avrebbe facilitato il “trasferimento di migliaia di rifugiati verso Paesi terzi”.
Sono trascorsi sei mesi da allora, e, come si dice, di acqua sotto i ponti ne è passata. Anche perché, nel frattempo, in Italia ci sono state le elezioni politiche e sono iniziate le interminabili trattative per formare il Governo, trattative conclusesi proprio in queste ore con l’assegnazione dell’incarico di premier a Giuseppe Conte. E il nuovo governo Lega-M5S imprimerà certamente una svolta nelle politiche migratorie, tema che al Carroccio di Matteo Salvini, si sa, sta particolarmente a cuore. In effetti, proprio nel contratto di governo si prevede, oltre a un progressivo assottigliamento dei diritti dei migranti, il rimpatrio (secondo molti inattuabile) di 500mila immigrati irregolari, con annesso “trattenimento” in centri preposti “per tutto il periodo necessario ad assicurare che l’allontanamento sia eseguito in un tempo massimo complessivo di diciotto mesi”.
Al di là dell’effettiva fattibilità del progetto (che resta discutibile, visto che, per effettuare i rimpatri, servono – oltre che ingenti risorse per individuare i migranti e organizzare i trasferimenti – anche accordi bilaterali con i Paesi d’origine), è evidente che una politica di questo genere potrebbe generare preoccupazione nella comunità internazionale. Intendiamoci: non si può dire che Marco Minniti, con il codice di condotta imposto alle Ong e l’accordo con Tripoli di cui abbiamo parlato prima, non avesse mostrato a sua volta un “pugno duro”. Ma l’aggressiva campagna elettorale della Lega sull’immigrazione, accompagnata dall’estrema mobilità dei pentastellati sull’argomento, è in un certo senso la promessa implicita che le cose siano destinate a peggiorare (perlomeno, dal punto di vista di chi scrive).
Abbiamo provato a chiedere al portavoce del segretario generale ONU Stéphane Dujarric e a quello dell’Assemblea Generale Brenden Varma, durante il quotidiano press briefing, se alle Nazioni Unite vi fosse preoccupazione per quello che potrebbe accadere d’ora in poi, ma entrambi ci hanno risposto in maniera molto diplomatica: “Il Segretario Generale non fa speculazioni”, ha detto Dujarric, linea confermata da Varma. Entrambi, però, hanno enfantizzato l’importanza del Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration (GCM) e del Global Compact on Refugees(GCR), due accordi globali che verranno definiti a luglio e saranno approvati entro l’anno.
Intendiamoci: non che ci aspettassimo una risposta meno abbottonata, in questa fase, e anche noi della Voce attendiamo al varco di questi due importanti appuntamenti internazionali il governo Conte. Eppure, la congiuntura in cui ci troviamo merita particolare attenzione. Perché, oltre all’incognita sulle azioni del nuovo Governo, bisogna poi ricordare che, intanto, Emmanuel Macron sta lavorando alacremente per convocare il prossimo 29 maggio in Francia i leader libici per sottoscrivere un accordo che crei le condizioni per tenere le elezioni entro la fine dell’anno. Una mossa che, ancora una volta, batterebbe sul tempo l’Italia – tradizionale candidata alla leadership della questione libica -, ma soprattutto bypasserebbe, in certo qual modo, la funzione delle Nazioni Unite e del loro inviato speciale nel Paese Ghassan Salamé. Il quale, peraltro, qualche giorno fa in Consiglio di Sicurezza ha ribadito che per la stabilità del Paese – negli scorsi mesi sempre indicata come precondizione necessaria al rispetto dei diritti umani – serve ancora tempo.
Non solo: novità dell’ultimo mese, il 3 maggio scorso l’associazione benefica britannica Global Legal Action Network ha portato di fronte alla Corte europea dei diritti umani (Cedu) la denuncia presentata da 17 sopravvissuti al naufragio di una imbarcazione piena di migranti il 6 novembre scorso, in cui la Guardia Costiera libica avrebbe interferito nei tentativi di una nave delle Ong di salvare 130 persone dal gommone. Circa 20 persone sono morte nell’incidente, mentre i sopravvissuti sono stati rispediti in Libia, dove, secondo quanto raccontato, hanno subito detenzione e violenza estrema in condizioni disumane. Due migranti sarebbero addirittura stati “venduti” come schiavi e sottoposti a scariche elettriche.
Un’ulteriore tegola sull’accordo tra Italia e Libia, già di per sé duramente contestato dalle organizzazioni attive nella difesa dei diritti umani e dallo stesso al-Hussein. Perché, se i giudici della Cedu – che già sei anni fa bocciarono un accordo simile concordato tra Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi – dessero ragione ai migranti, questa potrebbe costituire una via legale per scardinare l’accordo.
Poi, certo: nel frattempo, il lavoro delle organizzazioni umanitarie continua. L’UNHCR ha di recente ripreso il programma di evacuazione di emergenza dei rifugiati dalla Libia, dopo che era stato sospeso all’inizio di marzo, a seguito delle preoccupazioni espresse dal governo del Niger per il fatto che le partenze finalizzate al reinsediamento in altri Stati non avessero lo stesso ritmo degli arrivi nel Paese. L’Organizzazione dichiara di aver evacuato, dal mese di novembre 2017 e con il sostegno dell’Unione europea e delle autorità libiche, 1.474 rifugiati e richiedenti asilo vulnerabili, tra cui madri sole, famiglie e minori non accompagnati o separati, trasferendoli dalle strutture dove erano trattenuti e ricollocandoli in Niger (1.152), Italia (312) e Romania (10). Una buona notizia, indubbiamente. Ma resta una toppa cucita su una voragine. E tale rimarrà finché, a causa dell’accordo tra Roma e Tripoli, i migranti verranno rispediti direttamente nelle grinfie dei loro carcerieri libici.