Gli Stati Uniti dicono addio all’accordo sul nucleare con l’Iran, e con questa decisione si chiude definitivamente l’era obamiana, perlomeno sul piano internazionale. Sì, perché quell’accordo viene considerato il pilastro fondamentale della politica estera del predecessore di Donald Trump, una politica altrimenti – urge ammetterlo per onestà intellettuale – a tratti ambigua e confusa. Quel trattato, che coinvolge – oltre all’Iran – Unione Europea nella sua interezza e i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU (Gran Bretagna, Francia, Cina, Russia e Stati Uniti), fu presentato come quello che avrebbe finalmente cementato la svolta nelle relazioni dell’Occidente con l’Iran, da sempre segnate da problemi e sfiducia reciproca. E avrebbe, nelle intenzioni originarie, segnato la fine della nuclearizzazione di Teheran, minacciosa per tutto il Medio Oriente e non solo. Ma poi, con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, la nuova amministrazione americana annunciò fin da subito l’intenzione di “pull out”, di ritirarsi da quello accordo. Ora, quel giorno sembra ormai arrivato.
Una decisione ufficializzata, tra gli altri, dalla combattiva rappresentante permanente USA alle Nazioni Unite Nikki Haley, che proprio ieri, in una nota, ha dichiarato: “Il presidente ha preso certamente la decisione giusta nel ritirarsi dall’accordo sul nucleare iraniano. Era un accordo terribile che consentiva alla pessima condotta internazionale dell’Iran di peggiorare. Non possiamo permettere all’Iran di dotarsi di armi nucleari, e dobbiamo contrastare il loro supporto al terrorismo che continua a minacciare l’America e i suoi alleati”. Del resto, Haley balzò all’onore delle cronache lo scorso dicembre, quando convocò, a Washington, una conferenza stampa destinata a rimanere sui libri di storia della politica internazionale, presentandosi ai media e agli americani in compagnia dell’imponente missile, che disse di fabbricazione iraniana, lanciato dai ribelli yemeniti verso l’Arabia Saudita.
Ora, le domande da porsi sono tante. Perché questa decisione? Quali saranno le conseguenze per la comunità internazionale? Che cosa farà l’Iran? Come impatterà sui rapporti transatlantici? Che farà l’Europa? Tutte domande di difficile risposta, ma forse un quadro si può cominciare a tracciarlo, con la dovuta prudenza. Ma cominciamo dall’inizio: quali sono le ragioni che hanno portato Trump a prendere questa decisione, non a caso definita dalla giornalista Christiane Amanpour “possibilmente l’atto di più grande autolesionismo e autosabotaggio nella politica geostrategica dell’era moderna”?
Le ragioni della “linea Trump”
Il Presidente Trump ha sempre definito l’accordo con l’Iran pessimo, sotto ogni punto di vista. Chi pensa abbia ragione, ricorre innanzitutto ad una argomentazione: per usare le parole scelte, per la CNN, dal columnist del Daily Telegraph Timothy Stanley, tale trattato funzionava come un tentativo di “corrompere” l’Iran, convincendolo a rinunciare al programma nucleare “nel modo in cui si nutre un animale feroce con scarti di carne per cercare di dissuaderlo dall’aggredirti”. Mediante quell’accordo, cioè, sono state tolte le sanzioni al regime e si è consentito all’Iran di rientrare a pieno titolo nella vita economica della comunità internazionale: cosa che, per i sostenitori della “linea Trump”, significa legittimare la regolarizzazione de facto di uno “stato pariah”. Non solo: i detrattori dell’accordo ricordano che, nonostante Teheran, per quanto se ne sa, abbia effettivamente posto fine ai processi di arricchimento dell’uranio, contemporaneamente ha continuando a investire, piuttosto apertamente, sul suo programma missilistico. Proprio a questo proposito, il presidente Rohani aveva in passato specificato di essere legittimato a farlo senza violare l’accordo originario. Alla luce di questi elementi, i sostenitori della “linea Trump” temono che i negoziati condotti da Obama finiranno per rafforzare l’Iran quale potenza internazionale, consentendogli di acquisire un ruolo egemonico in Medio Oriente senza, tuttavia, impedirgli completamente di minacciare militarmente i suoi vicini. Il presupposto di tutta questa argomentazione, naturalmente, è uno solo: ben lungi dal considerare un pericolo il solo estremismo islamico di matrice sunnita – lo Stato Islamico -, le strategie mediorientali iraniane vengono considerate ugualmente un fattore di destabilizzazione. Destabilizzazione, naturalmente, rispetto all’immagine che Trump e la sua amministrazione ha del Medio Oriente. E, da qui, si passa al secondo punto.
La strategia mediorientale di Trump
Sì, perché non si potrebbe comprendere appieno la decisione a stelle e a strisce senza citare, almeno superficialmente, l’agenda mediorientale del Presidente. Che in tutta evidenza, in politica interna e in quella estera, è guidato dall’esigenza di autorappresentarsi come l’Anti-Obama per eccellenza, smantellando uno per uno i principali cardini dell’eredità del suo predecessore. E se Obama aveva segnato in politica estera e in certa misura un allontanamento, o almeno una parziale messa in discussione, delle intoccabili alleanze con Arabia Saudita e Israele, Trump è deciso a riportarle agli splendori dei vecchi tempi. Per carità: non che Obama avesse rivoluzionato lo status quo, visto che, quando si è trattato di firmare contratti militari e di vendita armi a Riad – ben nota per le sue attività di finanziamento del terrorismo – ha addirittura battuto il record delle precedenti presidenze. Tuttavia, indubbiamente l’apertura all’Iran e la contrapposizione a certe politiche di Bibi Netanyahu avevano perlomeno rimesso in discussione la linea apertamente e saldamente filo-israeliana e filo-saudita della politica mediorientale americana. Il Medio Oriente di Trump è invece un disegno più fedele alla tradizione conservatrice, non a caso strategicamente suggerito dal potente genero Jared Kushner, di ricchissima e influente famiglia ebrea. In effetti, non c’è dubbio che l’abbandono USA dell’accordo nucleare compiacerebbe Netanyahu – grande rivale di Teheran nella regione -, che ha peraltro sempre spinto perché ciò avvenisse.
I timori dei sostenitori dell’accordo: le conseguenze per l’Europa e il mondo
Trump agisce, tra le altre cose, ritenendo di essere in sintonia con un ampio settore dell’opinione pubblica americana, perlomeno quello che l’ha sostenuto fin dall’inizio e che ha sempre ritenuto necessario usare il “pugno duro” con i nemici storici degli Stati Uniti. Ma vi è un altro ampio settore, fatto anche di commentatori, studiosi, giornalisti, politologi e osservatori, che ritiene senza alcun dubbio la linea di Trump – oltre che un’occasione mancata – un grosso errore. In effetti, tale decisione sarà certamente pregna di conseguenze. In primo luogo, porterà a una profonda spaccatura della comunità internazionale e delle sette parti che avevano contratto l’accordo: in primis i Paesi europei che lo hanno sostenuto con convinzione e entusiasmo e, fin dal giorno dopo, hanno fatto ripartire investimenti e scambi commerciali con Teheran. Perché in effetti, il mercato più prezioso per l’Iran non è tanto quello americano, ma quello europeo: e se le sanzioni di Washington hanno potuto relativamente poco, quelle europee hanno devastato l’economia dello stato mediorientale, causando gravi perdite anche alla parte occidentale. Per fare un semplice esempio relativo al nostro Paese – tradizionalmente e insieme alla Germania tra i principali investitori europei in Iran -, se l’accordo andasse in fumo, l’Italia rischierebbe a sua volta di mandare in fumo 27 miliardi. Ma oltre al lato economico, c’è da considerare anche quello strategico, tutt’altro che secondario. Anzi, su questo piano, le conseguenze della mossa di Trump potrebbero essere davvero disastrose. Perché, se gli Stati Uniti escono, semplicemente, dall’accordo, e se quest’ultimo rimanesse comunque operante, l’Iran potrebbe tenersi tutti i benefici legati alla sospensione delle sanzioni, e contemporaneamente essere sottoposto a una minore pressione internazionale nel rispettare gli accordi presi sul nucleare. Una soluzione che gli ufficiali iraniani ed europei hanno già escluso dall’inizio. L’altra via, però, è quella più radicale: gli USA dovrebbero cioè convincere i colleghi europei, i russi e i cinesi a seguire il suo esempio. Potrebbe farlo usando armi pensanti: e cioè minacciando di imporre sanzioni secondarie a chi farà business con l’Iran: a pagarne le spese, insomma, sarebbero proprio le compagnie e le banche europee, che a quel punto sarebbero costrette a fare un passo indietro. Una decisione non priva di conseguenze: Airbus (con sede in Francia), così facendo potrebbe perdere 22 miliardi, ma esempi di questo tipo si sprecano. Ecco perché ufficiali dell’Unione Europea hanno già annunciato che, se tale scenario si realizzasse, sarebbero pronti a rispondere al fuoco incrociato di Trump, preparandosi a difendere le proprie attività in Iran. E questa mossa potrebbe potenzialmente distruggere i rapporti commerciali tra USA e UE, già minacciati dai dazi trumpiani, con conseguenze economiche potenzialmente disastrose, visto che l’Europa resta il primo e più importante partner commerciale americano.
Conseguenze strategiche secondarie: e la Nord Corea?
Altro timore degli osservatori, il fatto che la decisione di Trump di tirarsi fuori da un accordo firmato solo tre anni fa possa scoraggiare la diplomazia internazionale su altri fronti, come quello – delicatissimo – nordcoreano. Che ne sarà dell’affidabilità degli States agli occhi delle parti che si apprestano a negoziare su questioni complesse con l’amministrazione americana? Questa non è questione di poco conto. Anche perché si parla della Corea del Nord, il cui programma nucleare e missilistico è ben più sviluppato di quello iraniano: l’impressione che Kim Jong-Un potrebbe trarne è che gli eventuali accordi futuri saranno certamente rispettati fino alla tornata elettorale del 2020: da lì in poi, tutto potrebbe cambiare di nuovo. Circostanza che certo non aumenterà il potere negoziale statunitense, e potrebbe mandare a monte gli ammirevoli progressi tenacemente raggiunti dai sudcoreani.
Perché la Nord Corea sì e l’Iran no?
Senza contare che, a questo punto, una domanda sorge spontanea, e riguarda l’apparente incoerenza della linea trumpiana rispetto a due Paesi molto diversi tra loro, ma accomunati dall’essere considerati potenziali minacce nucleari. Un’obiezione che facilmente sarà sollevata da Teheran, tanto più che il suo programma è nettamente inferiore a quello di Pyongyang. La risposta, ad ogni modo, è leggibile implicitamente tra le righe precedenti: il caso dell’Iran è un unicum perché riguarda strettamente la strategia di Trump in Medio Oriente, le sue alleanze con Israele e Arabia Saudita, e la sua tenace determinazione nel distruggere ogni restante brandello dell’eredità obamiana. E dove Obama non è arrivato – come in Corea del Nord -, è per l’attuale Presidente legittimo, se non doveroso, spingersi.