Venerdì 27 aprile 2018: una giornata destinata a rimanere nei libri di storia. Perché, per la prima volta dopo 11 anni, il leader della Corea del Nord, Kim Jong-Un, e quello della Corea del Sud, Moon Jae-in, si sono incontrati in un vertice che ha colto di sorpresa il mondo intero. Sì, perché, fino a qualche mese fa, sarebbe stato impossibile soltanto immaginare che una tale eventualità si realizzasse in tempi brevi. L’incontro si è tenuto nel villaggio di Panmunjom, nella zona demilitarizzata (Dmz) sul confine fra le due Coree. Un luogo simbolico, dove i due leader hanno piantato insieme un pino, simbolico dei loro propositi di pace e prosperità.
A dominare la bilaterale, la parola magica che, fino a qualche settimana fa, nessuno avrebbe sperato di sentir uscire dalla bocca del dittatore nordcoreano: denuclearizzazione. I due leader si sono poi impegnati a siglare un trattato di pace che completi il processo iniziato con il precario armistizio attualmente in vigore, da firmare “entro l’anno” attraverso dei colloqui a tre che coinvolgano anche gli Stati Uniti o a quattro con Cina. In autunno, infine, il presidente Moon Jae-in si recherà a Pyongyang per un nuovo round di colloqui. Il tutto suggellato da un abbraccio che, comunque vada, resterà nei libri di storia.
Ma ci dobbiamo sperare davvero? Difficile dirlo. Di certo, i segnali positivi, nelle ultime settimane, non sono mancati. Come l’annuncio, da parte del governo di Pyongyang, di voler cessare gli ormai famigerati test missilistici con cui era solito minacciare il mondo intero. Per non parlare, poi, della notizia di un prossimo incontro con Donald Trump, il quale, ancor prima che l’invito venisse ufficializzato dal governo nordcoreano, si era detto disponibile. E che oggi ha fatto sentire la sua presenza, suggellando il momento con un comunicato che auspica un “futuro di pace”.
La portata storica dell’evento è evidente. L’ultimo vertice si era tenuto nel 2007, quando l’allora presidente sudcoreano Roh Moo-hyun, anch’egli progressista, si recò a Pyongyang per incontrare Kim Jong-il, padre dell’attuale leader. Ma il primo vertice inter-coreano dalla fine della guerra di Corea si era svolto nel 2000, su iniziativa dell’allora presidente di Seul Kim Dae-jung, a cui quell’anno fu non a caso assegnato il premio Nobel per la pace. Negli ultimi anni, però, la transizione politica nordcoreana e la ripresa dei test missilistici avevano di molto allontanato la prospettiva di una ripresa del dialogo. Nonostante in Corea del Sud, alla crisi della presidenza del conservatore Park Geun-hye – conclusasi con un impeachment e una condanna a 24 anni di carcere -, fosse seguita l’ascesa del progressista Moon Jae-In, da sempre favorevole alla ripresa delle relazioni con i vicini del Nord.
E in effetti, i risultati conseguiti sino ad ora si devono proprio alla tenacia del Presidente sudcoreano. Il quale, non a caso, aveva promesso ai suoi elettori, già in campagna elettorale, che la sua prima visita da leader politico sarebbe stata effettuata al di là del 38esimo parallelo. Promessa, poi, non mantenuta, a causa delle continue minacce nucleari di Pyongyang. Ad ogni modo, quello della normalizzazione dei rapporti con la Corea del Nord era un esplicito obiettivo politico dell’attuale Presidente. Obiettivo, nei mesi scorsi, ulteriormente indebolito a causa del pugno duro mostrato dal presidente Usa Donald Trump, protagonista di un botta e risposta a fuoco e fiamme con Kim Jong-Un, culminato su Twitter nella “guerra dei bottoni nucleari”.
In tale panorama, se oggi si parla addirittura di un incontro tra Kim e Trump è in gran parte merito della tenacia di Moon. Ma un po’ di sano scetticismo è del tutto giustificabile: perché, ci si chiederà, il temuto dittatore nordcoreano vuole la pace proprio ora? Di certo, l’unità dimostrata dalla comunità internazionale, anche in sede di Nazioni Unite, può avere avuto il proprio peso. Il Consiglio di Sicurezza – lo ricordiamo – ha infatti approvato nuove sanzioni ad agosto, settembre e dicembre 2017, sanzioni sottoscritte anche da Russia e Cina che tuttavia sono state accusate di averle violate in più occasioni. Tali provvedimenti avranno certo esercitato pressione sul leader nordcoreano, che tuttavia – bisogna dirlo – già in passato non sembra essersi particolarmente impietosito per le condizioni in cui versava la sua popolazione. Altro fattore l’avrà giocato la diplomazia internazionale, con le Olimpiadi invernali portatrici di una insperata opportunità di dialogo. Su questa scia, si deve ricordare il meeting tenutosi lo scorso 5 marzo tra Kim e i rappresentanti del governo di Seoul.
Eppure, limitarsi a enumerare questi fattori sarebbe forse semplicistico. Kim Jong-Un sta infatti seguendo una strategia ben precisa, esattamente come stava facendo mesi fa con i suoi test missilistici. Anzi, in parte si può sostenere che quelle provocazioni fossero ai suoi occhi propedeutiche al punto in cui siamo giunti ora. Il leader nordcoreano, infatti, è convinto di poter negoziare in una inedita posizione di forza rispetto a quanto fatto dal padre: i progressi in campo nucleare, esibiti agli occhi del mondo intero, hanno fatto della Corea una vera e propria minaccia sullo scenario globale. Ed è forte di tale “legittimazione”, se così si può dire, che Kim è oggi disposto a sedersi al tavolo con Donald Trump, come uno degli uomini più potenti e, se vogliamo, più pericolosi del pianeta.
Non solo: secondo alcuni commentatori, l’apertura di Kim potrebbe essere stata motivata, anche, dalla volontà di creare delle frizioni nella storica alleanza tra Stati Uniti – con Trump decisamente intransigenti verso Pyongyang – e la Corea del Sud – con Moon determinata a perseguire la via del dialogo -. Anche perché, in cambio della denuclearizzazione, Kim potrebbe pretendere il ritiro delle forze americane dal Sud. Una condizione certo difficile da accettare, ma che, non a caso, Chung-in Moon, consigliere speciale del presidente sudcoreano, ha affermato di non voler escludere a priori. D’altra parte, sul piatto Kim mette un programma nucleare su cui ha investito notevoli risorse, e che a Pyongyang considerano l’unica vera garanzia di sopravvivenza del regime. Dovrà pur volere qualcosa in cambio.
Anche chi si chiede se gli Usa abbiano avuto un ruolo di regia in quello che sta accadendo, o piuttosto lo stiano “subendo”, non avrà una risposta netta. A deporre per la seconda opzione ci sono alcuni segnali: come il fatto che gli Stati Uniti siano ancora privi delle figure istituzionali deputate a trattare con Pyongyang, visto che non è ancora stato nominato né l’ambasciatore a Seoul né l’assistente del Segretario di Stato per Asia orientale e Pacifico, e pochi giorni fa l’inviato speciale per la Corea del Nord, Joseph Yun, è andato in pensione. Non solo: non più di un mese fa, il vicepresidente Pence aveva rigorosamente negato qualsiasi apertura americana nei confronti di Pyongyang, ventilando anzi nuove sanzioni. D’altra parte, la promozione di un accordo con la Corea del Nord che contempli la denuclearizzazione della penisola sarebbe un successo indiscusso per l’amministrazione Trump, di cui il Presidente è del tutto consapevole. Perché poi, quel che conta in politica è la narrazione: e se Kim intende descrivere questo percorso verso il dialogo come la dimostrazione (e il risultato) della sua posizione di forza, dall’altro lato Trump lo vuole rappresentare come la resa finale del nemico minaccioso.
Ed è proprio su questo sfondo che spicca la figura di Mike Pompeo, attuale segretario di Stato fedelissimo del presidente Trump ed ex direttore della Cia, già protagonista, negli scorsi giorni, di un incontro blindatissimo con Kim Jong-Un. Pompeo si trova in queste ore a Bruxelles, al vertice dei ministri degli Esteri della Nato. Ma a nessuno sfuggirà come l’evoluzione positiva della crisi coreana potrebbe permettere al falco conservatore di accreditarsi agli occhi del mondo intero. Sempre che Kim, anche davanti a Trump, confermi la sua intenzione di rinunciare al proprio programma nucleare, e che Trump, dal canto suo, sia disposto a concedere a Kim, almeno in parte, ciò il dittatore chiederà in cambio. Ed è questa, in fondo, la parte più difficile.