Il volto coperto con le mani, nel tentativo vano di schermirsi da quegli assassini su commissione. Davanti a lei Miran, operatore e compagno d’eccezione in quel viaggio insieme – il settimo e ultimo nei piani di Ilaria – e che ultimo lo sarà per davvero. Un’andata senza ritorno per quella terra che aveva fatto presto a conoscere e amare, e che avrebbe probabilmente voluto difendere. Dalle ruberie della cooperazione, dalle ingiustizie sui civili. Aprendo gli occhi all’opinione pubblica italiana su quanto aveva scoperto negli ultimi giorni trascorsi a Bosaso. “Cose molto grosse”, aveva detto al suo caporedattore poche ore prima di essere uccisa preannunciando il suo servizio per l’edizione della sera del Tg3. Ma il servizio non andrà mai in onda.
Il 20 marzo 1994, a Mogadiscio, venivano ammazzati Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. A 800 metri dal luogo del delitto, davanti al porto Vecchio, la nave Garibaldi con a bordo i militari italiani. Sulla quale, poco dopo, verranno radunati gli altri professionisti dell’informazione, che erano già stati avvertiti per tempo del pericolo di un possibile attentato contro i giornalisti italiani nella capitale somala. Ilaria e Miran in trappola. Le autorità italiane assenti – eppure sono tante quelle presenti in quelle ore a Mogadiscio – negli attimi immediatamente successivi all’agguato degli uomini appartenenti al commando della Land Rover, che prima li inseguono, poi bloccano la Toyota su cui viaggiano e aprono il fuoco colpendo la giornalista e l’operatore, mentre l’autista e la scorta di Alpi e Hrovatin, stranamente, riescono a fuggire.
Nei paraggi c’è solo Giancarlo Marocchino, personaggio ambiguo e cruciale in questa storia, l’imprenditore italiano (indicato dal Sismi come trafficante d’armi) che carica i corpi di Alpi e Hrovratin sulla propria auto per condurli al Porto vecchio, dove un elicottero della Marina, mezz’ora dopo la richiesta d’aiuto, li porta a bordo della Garibaldi. Ma il corpo della giornalista, scoprirà quattro anni e mezzo dopo Luciana Alpi, la madre di Ilaria, era ancora caldo. E il suo cuore batteva a un’ora dall’agguato, tanto che il cappellano sulla nave dove lei e Miran verranno poi sistemati, andrà a darle l’estrema unzione, anziché benedirne la salma.

Sono trascorsi 24 anni da quel giorno. Ventiquattro lunghi anni votati per la loro gran parte – salvo poche eccezioni presto archiviate od opportunamente ignorate – all’occultamento della verità. Alcuni dei block-notes con gli appunti di Ilaria sono spariti, così come molte delle cassette registrate da Miran. Privati dei sigilli, i bagagli di entrambi. E poi le autopsie mancate, e gli stralci delle informative dell’intelligence, che menzionavano le minacce di morte fatte alla giornalista e all’operatore, opportunamente cancellati. Le morti sospette, di quelli che con Ilaria erano venuti a contatto, che sapevano qualcosa o che erano correlati in qualche modo al duplice omicidio. E ancora i tanti depistaggi, a dispetto dei quali la Procura di Roma chiede l’archiviazione del caso: l’udienza è fissata per metà aprile, ma i colleghi di Ilaria e Miran non ci stanno e oggi – nell’anniversario dell’agguato di Mogadiscio – Federazione Nazionale Stampa Italiana, Usigrai e Comitato di Redazione del Tg3 si sono dati appuntamento a Saxa Rubra, a Roma, per dire #noinonarchiviamo. Perché sono tanti, troppi i punti di domanda ancora senza risposta.
Il libro di Serena Marotta, edito da Informazione Libera, casa editrice da poco nata a Palermo, mette assieme tutti questi tasselli. E nel titolo, Ciao, Ibtisam!. Il caso Ilaria Alpi, rende omaggio alla giornalista e alla sua umanità, come spiega l’autrice: “Ibtisam in arabo vuol dire ‘sorriso’ – racconta Serena – e il mio libro è dedicato a una giornalista coraggiosa, una donna dalla spiccata sensibilità, mai invadente, proprio come questo mestiere richiede”.
Obiettivo del suo lavoro, dice, “è cercare di ricomporre i pezzi di un mosaico intricatissimo, in cui un ruolo fondamentale hanno avuto i genitori di Ilaria che non si sono mai arresi alle sentenze processuali, sostituendosi spesso agli inquirenti e battendosi contro tutto e tutti per cercare la verità”. Insieme ai fatti e ai processi, Serena traccia anche il contesto nel quale in quei giorni di marzo si muovono Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, quello di una Somalia lacerata da una guerra civile che aveva lasciato rovine e caos.

Il suo libro, appena pubblicato, contiene anche le carte che provano i tentativi di occultare le prove e mette in fila le diverse ipotesi circolate. A partire dalle perizie medica e balistica che si contraddicono. Racconta poi dei falsi testimoni costruiti a tavolino, come Ahmed Alì Rage detto”Jelle”, principale accusatore di Hashi Omar Hassan – il capro espiatorio perfetto, condannato da innocente a 26 anni di carcere – che poi confesserà di essere stato pagato per incastrare il somalo per l’omicidio. Ciao, Ibtisam! ripercorre anni di tesi perseguite per bollare l’uccisione come tentativo di sequestro finito male, di rappresaglia contro l’operato degli italiani in Somalia, come attacco a opera di islamisti. E a oggi è proprio il movente l’unico elemento che pare delinearsi chiaro in questa vicenda. Sì, perché a dispetto di tutte le pronunciazioni della magistratura e dei lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta all’opera dal 2004 al 2006 sul caso, la nota del Sismi datata 1994 e resa pubblica dopo anni dopo parla chiaro: “llaria Alpi è stata uccisa perché indagava su un traffico di rifiuti e armi. I mandanti vanno ricercati tra militari somali e cooperazione”.
Ad avvalorarne la veridicità sono gli ultimi giorni di Ilaria e di Miran che, inviati in Somalia per seguire il ritorno a casa del contingente italiano in missione di pace nel Corno d’Africa, lavoravano parallelamente su un’altra pista, quella dei traffici. Che li condusse a Bosaso, nel nord del Paese. Per indagare su una nave sotto sequestro che ufficialmente trasportava pesce e in Somalia tornava carica di armi: la Faarax Omar, della flotta Schifco, il cui amministratore era Omar Mugne, somalo con passaporto italiano e con un losco giro d’affari, nonché amico di Siad Barre e Bettino Craxi. La nave è oggetto dell’intervista di Ilaria Alpi al sultano di Bosaso Abdullahi Mussa Bogor. Quell’intervista di cui, ricorda Serena Marotta, “giungono soltanto pochi minuti, nonostante fosse durata due ore”.
Ma la Faarax Omar non è l’unico elemento su cui si concentrano le attenzioni della giornalista e dell’operatore, i quali indagano sugli sprechi di denaro della cooperazione italiana e sui rifiuti tossici e radioattivi arrivati sulle coste della Somalia e sospettano che fusti pieni di scorie nucleari siano già stati sbarcati e interrati lungo la nuova strada Garowe-Bosaso. Tutti elementi fondamentali, che Serena Marotta sviscera nel proprio libro, per comprendere il tragico epilogo di Alpi e Hrovatin, forse deciso in una riunione che secondo alcune informative dei servizi di intelligence si sarebbe tenuta il 15 marzo 1994 a casa di Ali Mahdi, all’epoca presidente ad interim della Somalia a Gibuti, e alla quale avrebbe partecipato anche lo stesso Marocchino.
In appendice di Ciao Ibtisam, Marotta include anche un capitolo non ancora presente nel libro, intitolato “Ilaria Alpi sulle tracce di Graziella De Palo?”, che punta a sviluppare una sua ipotesi: quella che la giornalista del Tg3 stesse seguendo la pista tracciata da un’altra collega, Graziella De Palo, uccisa in circostanze simili a Beirut nel 1980, anche lei come Ilaria (in periodi diversi) collaboratrice di Paese Sera, anche lei, prima della morte, impegnata a indagare su un traffico di armi.