Gli antichi dicevano mala tempora currunt. E se la storia è fatta di corsi e ricorsi, come più volte l’umanità ha potuto verificare sulla propria pelle, oggi l’impressione è quella di vivere, di nuovo, in un’Italia sfasciata dal conflitto sociale. Razzismo, neofascismo, Tv 24 ore su 24 impegnate a fare le pulci alla Procura che indaga sulla barbara morte dell’ormai (tristemente) nota Pamela, a sezionare – come sezionato è stato il suo corpo – le sue ultime ore di vita, il dolore dei suoi genitori, strumentalizzando una vicenda davanti alla quale, forse, occorrerebbe solo un po’ di silenzio. E invece, 24 ore su 24, sugli schermi si grida a gran voce che sì, i clandestini devono essere cacciati indietro nei propri Paesi, e lo si fa dimentichi che molti di loro, in Libia, sono intrappolati in campi di detenzione pericolosamente simili a quei lager che ricordiamo, controvoglia, ogni anno a fine gennaio. E poi dimentichiamo di nuovo, per altri 365 giorni.
Mala tempora currunt, è innegabile. “Mala”, ma quanto, esattamente? Come recita l’eloquente titolo di un film nelle sale proprio in queste turbolente settimane, “lui” è davvero tornato? Una domanda a cui è difficile dare una risposta, perché, in fondo, l’esercizio della nominazione è un compito complesso, e anche una grande responsabilità. Soprattutto quando si scomodano i fantasmi peggiori del passato. Il razzismo c’è, è evidente: ed è un razzismo fatto di ignoranza, pompato dalle costanti strumentalizzazioni della politica, ma anche da un’informazione che, per anni, non ha fatto altro che rappresentare in modo iperbolico ed emergenziale un fenomeno – quello migratorio – che esiste e va gestito (possibilmente meglio di quanto fatto fino ad ora), ma che è ben lontano dalle proporzioni che assume nella percezione della gente. Si guardino solo i dati: i fatti ci dicono che gli stranieri (di tutte le nazionalità) residenti in Italia sono complessivamente 5 milioni, pari, all’inizio del 2017, all’8,3% della popolazione residente. E se anche al conto si aggiungono coloro che la legge «Bossi Fini» definisce “clandestini” (tra le 500-800 mila unità), si giunge a fatica al 10% della popolazione. Eppure, secondo un recente rapporto Eurispes, per il 35% degli interpellati sarebbe presente sul territorio nazionale una quota di stranieri pari almeno al 16% della popolazione totale. Per il 25,4% degli interpellati, addirittura un residente su quattro in Italia sarebbe non italiano. E solo il 28% della popolazione azzecca (all’incirca) le percentuali. L’Italia, insomma, è il Paese con il più alto tasso di ignoranza sul fenomeno migratorio.
La responsabilità, certo, è della politica, ma è anche, indubbiamente, dell’informazione. Un’informazione spesso poco accurata, che finisce per esasperare le tensioni sociali anziché tendere a una loro normalizzazione. Quando si dice, gettare benzina sul fuoco. Anche in questo caso, qualche dato può essere d’aiuto. Nel 2015, anno di “esplosione”, per così dire, della crisi migratoria, secondo il Terzo Rapporto Carta di Roma, sono stati ben 1452 i titoli di prima pagina sulla questione nei primi dieci mesi dell’anno, con un significativo incremento percentuale rispetto al 2013 soprattutto per alcune testate: il 188% per il “Giornale”, tra il 70 e il 100% per il “Corriere” e “La Repubblica”. Complessivamente, sono state solo 39 le giornate in cui, nel campione preso in considerazione dal Rapporto Carta di Roma, non è comparso almeno un titolo o un articolo sulla crisi su un quotidiano nei primi 10 mesi del 2015. E per quanto riguarda il coverage da parte dei telegionali di prime time, si è raggiunto nel 2015 il valore più alto in 11 anni di rilevazione: 3.437 notizie. Inutile dire che i toni del racconto sono stati, in gran parte, emergenziali. Così, l’immigrato è diventato il capro espiatorio di una società che si sente abbandonata dalle istituzioni, e che scarica su ciò che è diverso da sé le proprie frustrazioni. Niente di cui stupirsi, direbbero i sociologi. Ancora una volta, corsi e ricorsi.
Più complicato, invece, esprimersi sul ritorno del fascismo. L’allarme c’è e non viene solo dall’Italia. Pochi giorni fa, il quotidiano inglese The Guardian tuonava, senza girarci troppo intorno: Italy is being driven into the arms of fascists. “Più di 70 anni dopo la morte di Mussolini, migliaia di italiani stanno aderendo a gruppi che si definiscono fascisti. Tra i motivi ci sono il modo in cui viene raccontata la crisi dei migranti, l’aumento di notizie false e l’incapacità del Paese di fare i conti con il passato”, si legge. Un’analisi che sarebbe bene non liquidare come l’ennesima esagerazione che giunge dall’estero, ma con la quale bisognerebbe fare i conti. Anche perché che qualcosa di inquietante stia accadendo è ormai innegabile.
Ce ne si rende conto consultando il sito Infoantifa Ecn, che monitora costantemente le aggressioni neofasciste che avvengono sul territorio italiano. I numeri, in effetti, cominciano a essere preoccupanti. I dati sono in continuo aggiornamento, ma, dal 2014, si possono contare almeno 142 attacchi e attentati effettuati da organizzazioni cosiddette neofasciste. A cui si aggiungono minacce e intimidazioni.
Si parla tanto di terrorismo islamico, ma al momento, in Italia, ha fatto più vittime quello neofascista. Certo: oltre al fenomeno in sé, da tenere in considerazione anche la modalità con cui questo viene raccontato. E se nelle ultime settimane, a maggior ragione in concomitanza dei fatti di Macerata, l’attenzione sull’argomento è giunta alle stelle, così non è stato nel corso degli ultimi anni, quando molti episodi non riuscivano a conquistarsi l’attenzione delle cronache. Il silenzio di anni, contrapposto ai riflettori di oggi, può dare la sensazione (pur legittima, ad avviso di chi scrive) che l’improvviso allarme possa essere – proprio come quello relativo all’immigrazione – un’esasperazione di un fenomeno tutto sommato circoscritto. Ci si chiede, però, se il problema non sia, più che le denunce di oggi, l’indifferenza di ieri. A suo modo, ce lo ha detto anche uno dei manifestanti che abbiamo incontrato al corteo antifascista organizzato in Piazza Malatesta, a Roma, alla vigilia della grande manifestazione di Macerata: “Il problema è che non si sa, perché non lo dice nessuno, ma in questo quartiere ci sono state, l’anno scorso, circa 50 aggressioni a persone che hanno la pelle di un colore diverso del nostro, e che non si rivolgono neppure al Pronto Soccorso per il timore di dover essere identificati”.
Proprio in quello stesso quartiere romano di Torpignattara, noto per la sua multietnicità, due giorni prima della manifestazione, Forza Nuova ha inaugurato, nel totale silenzio-assenso delle istituzioni, una nuova sede, La Rustica, con tanto di taglio del nastro e brindisi. E sulla natura fascista di tale organizzazione è difficile avere qualcosa da obiettare: solo qualche giorno fa, in un blitz alcuni suoi militanti hanno appeso uno striscione con scritto “Magari” appena sotto al cartellone pubblicitario del film “Lui è tornato”, in piazza Venezia. Più chiaro di così. E sulla locandina che annuncia la presentazione, fissata per il prossimo 13 febbraio, dei candidati di Forza Nuova alla Camera e al Senato, campeggia in bella vista lo slogan “I fascisti votano” con i simboli, appunto, di Forza Nuova e Fiamma Tricolore.
Insomma, sul fatto che in Italia esista un rigurgito neofascista non c’è dubbio. Sulle proporzioni, sulla durata e sulla copertura mediatica del fenomeno, la questione si fa più complessa, ed è simile a quella tante volte posta dal terrorismo dell’Isis: è opportuno dare spazio, attenzione, riflettori alla propaganda di estrema destra, con il rischio che la denuncia si trasformi nel suo contrario, cioè nella glamorizzazione di iniziative palesemente anti-costituzionali? E poi c’è un’altra questione ancora: la risposta politica. Se da certi partiti di destra, per i quali lo strizzare l’occhio ai nostalgici è pura strategia elettorale, non ci si può attendere, purtroppo, ferma ed esplicita condanna, il (triste) segno dei tempi (mala tempora, dicevamo), è data dalla risposta confusa, divisa, balbuziente della sinistra. Dopo Macerata, il segretario del più grande e influente partito di centrosinistra italiano, Matteo Renzi, ancora non sapeva se si potesse parlare di “attacco terroristico”. E invitava alla calma, prima ancora che condannare con tutta la chiarezza necessaria i sanguinari rigurgiti razzisti e fascisti di Luca Traini. Il sindaco di Macerata, anche lui del Pd, invitava le forze antifasciste a non manifestare per non turbare gli animi già infiammati dalle vicende di qualche giorno prima. E la stessa Anpi ha deciso, in un primo momento, di ascoltare quell’appello e rinviare la manifestazione del 10 febbraio, salvo poi, viste le proteste della base, invitare la Prefettura ad autorizzare il corteo. Per non parlare del ministro dell’Interno Marco Minniti, ex Pci, che dichiarava di aver deciso di bloccare gli sbarchi (condannando migliaia di migranti a quei lager di cui parlavamo prima) per aver visto, già mesi fa, un Traini all’orizzonte. Un’affermazione dove è impossibile non vedere un cortocircuito logico, tanto che, su Twitter, qualche utente ha voluto far notare al Ministro che Traini non è giunto a bordo di un barcone.
Più che un’emergenza neofascista in sé, insomma, ciò che dovrebbe preoccuparci è la (non) risposta che proviene da ampi settori di quella parte politica che, perlomeno per storia, sarebbe deputata a raccontare una narrazione alternativa. E che, oggi, prigioniera dell’oscillante gradimento degli elettori, fatta eccezione per qualche affermazione retorica e poco efficace, non osa gridare a gran voce ciò che bisognerebbe gridare, né tantomeno assumersi la responsabilità storica di attenzione e vicinanza nei confronti di ampi settori della società (compresi i “lavoratori”), da troppo tempo abbandonati a se stessi e che finiscono per sentirsi traditi. Ancor meno, poi, pare disposta a contrastare quella pericolosa retorica nostalgica e razzista con una visione di lungimiranza, realismo e, per quanto questa parola sia ormai decisamente fuori moda, umanità. Perché oggi, è quel fascismo-non fascismo a cui si fatica a dare un nome, quel bieco razzismo un po’ subdolo che pervade ampi settori della società, ad andare di moda. E la moda detta legge, soprattutto in tempo di elezioni.
Video e interviste girate in occasione del corteo antifascista organizzato a Piazza Malatesta (Roma) “Fuori i Fascisti dai nostri quartieri”, venerdì 9 febbraio.