Difficile spiegare a un’amica di Bruges e a un’altra che è venuta da Rotterdam perché in queste ore a Roma, Milano e ovunque, in tanti esprimono soddisfazione, gioia, commozione; e sarà ancora più difficile spiegarlo alle due o tre ragazze che ogni anno mi accolgono nella reception del festival del cinema internazionale di Locarno in Svizzera, con le quali, dopo una decina d’anni si è creata un minimo di confidenza. Cosa dico loro, che una parte consistente di questo paese che per tanti versi è il più bello e il migliore del mondo, il paese che ha regalato al mondo la “bellezza”, festeggia il cosiddetto “minimo sindacale”, quel diritto mirabilmente sintetizzato nell’evangelico “Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te” (e naturalmente il suo contrario).
Ora – non ho timore di confessarlo – della morte (e non solo della sofferenza) ho semplicemente orrore. Trovo orribile la sola idea che un giorno tutto quello che mi circonda, le persone che amo, la “bellezza” di questo orribile pianeta in cui tocca vivere, un giorno “semplicemente” possa finire. Finire per me, e m’importa un fico che per qualche anno lascerò un “buon ricordo”, oppure sarà scolpita da qualche parte un qualcosa di memorabile. Io non ci sarò, sarò altro. Punto. Nell’ideale lapide si potrà legittimamente scrivere: “Morto con rabbia e dispiacere”.
Detto questo, assetato come sono di vita, mettendomi i brividi il solo pensiero della morte, non posso che riconoscere che è diritto inalienabile di ciascuno e di tutti poter scegliere quando “andarsene”, se “andarsene”, come “andarsene”. E io – ma tutti – siamo niente e nessuno per impedire a chiunque di poter esercitare questo diritto. E’ sufficiente che lo faccia, lo possa fare in piena scienza e coscienza. Le mie convinzioni, la mia religione, le mie filosofie possono trovare ripugnante l’idea che ci si possa sopprimere; ma questo vale per me e me solo. Chi è di diverso avviso di sé, della sua vita, faccia quello che crede, se lo vuole, se “sa”.
Invece no. Questo diritto, in Italia almeno, non esiste. O meglio, esiste, eccome; lo si esercita. Ma non bisogna dirlo, bisogna farlo di nascosto. Fino a ieri si poteva soffrire come cani, e senza speranza, inutilmente; urlare, strepitare, soffrire. L’unica speranza era trovare un medico, un’infermiera che con mano pietosa ponesse fine alla nostra sofferenza. Il tutto senza regola, affidandosi alla buona coscienza, alla compassione, alla misericordia del singolo. E vai a sapere…
Una “buona morte” clandestina, effettuata di nascosto; punibile, qualche volta punita. Niente da fare: per anni è stato un grande tabù. Pensate: negli anni Settanta il deputato radical-socialista Loris Fortuna (lo stesso cui si deve la legge che consente il divorzio; gli altri “moschettieri” di quella grande riforma sono Marco Pannella, Mauro Mellini, Antonio Baslini), dopo esser riuscito (sempre con Pannella e Mellini, oltre a Gianfranco Spadaccia, Giacomo Mancini, Adele Faccio, Emma Bonino) a depenalizzare l’aborto e rendere legale l’interruzione di gravidanza, presenta un progetto di legge che consente in rigorosi casi l’eutanasia. Quel progetto di legge non solo non è mai stato discusso. Non l’hanno neppure calendarizzato. Il Parlamento italiano si è perfino rifiutato di promuovere un’indagine per conoscere le dimensioni dell’eutanasia clandestina. Per dare un’idea del fenomeno, però è sufficiente riflettere sul fatto che la città di Trieste è, al tempo stesso, la più “anziana” d’Italia, e quella con la più elevata percentuale di suicidi.
Lentamente nel paese comunque si è fatta strada una consapevolezza, un sentimento che era presente, si “sentiva” esserci, ma disordinato, inconsapevole della sua dirompente forza. Si deve ringraziare ancora una volta Marco Pannella, i radicali. Sono loro che nella passata legislatura, sfidando tutto senza confini, hanno presentato progetti di legge sul fine vita e l’eutanasia; sono radicali i malati senza speranza che si sono battuti per la libertà di ricerca scientifica e l’autodeterminazione del proprio corpo, del proprio vivere e morire: Luca Coscioni, Piergiorgio Welby. Come Pannella hanno fatto politica con il loro corpo; i loro corpi erano politica. La loro parola d’ordine: dal corpo del malato al cuore della politica.
Perché non solo di eutanasia non si voleva parlare; neppure di inutilità dell’accanimento terapeutico, del fatto che ognuno possa lasciare un “testamento” nel quale chiede che non ci si accanisca con cure dolorose e inutili, quando non c’è più rimedio, speranza; e c’è solo dolore e strazio. E dire che Giovanni Paolo II, poi santificato, giunto allo stremo, aveva chiesto, letteralmente, di poter tornare “alla casa del Padre”. Lui venne accontentato. Era quello che chiedeva Welby: sedatemi, e lasciatemi andare senza sofferenza. Un medico pietoso, il professor Mario Riccio lo ha fatto. Lo hanno processato. Poi hanno dovuto assolverlo. E’ un diritto costituzionalmente garantito, quello di poter rifiutare le cure, e poter dire NO all’accanimento. Quegli articoli della Costituzione a suo tempo furono attentissimamente soppesati da un pensoso Aldo Moro, sicuramente sensibile alle ragioni vaticane e dei credenti…
Al cattolicissimo Policlinico Gemelli di Roma questa “pratica” è pane quotidiano. Il paziente senza speranza di guarigione e con la sola certezza dell’inutile sofferenza, può chiedere di essere “lasciato andare”; e il suo desiderio viene rispettato. Ma occorre che la richiesta sia fatta in scienza e coscienza; che chi chiede di potersene andare, sia consapevole, nel pieno delle sue facoltà. Per il caso di Eluana Englaro, vittima di un coma senza possibilità di risveglio, non c’era questo “testamento”. Il padre sì, assicurava che la figlia quello avrebbe chiesto. Ma il caso – lo ricorderete – è stato al centro di mille polemiche, e si è protratta per anni. Ma insomma, queste dolorose vicende hanno reso impossibile continuare a ignorare la questione; e alla fine i politici se ne sono dovuti occupare, il Parlamento ha dovuto affrontarla e legiferare: appunto, dal corpo del malato, al cuore della politica.
Bisogna intenderci: non si è varata una legge che legalizza l’eutanasia. Non siamo la Svizzera, il Belgio, l’Olanda, l’Oregon. Siamo l’Italia, e da oggi è consentito affidare a un nostro fiduciario quello che si può o non si può fare nei casi non si sia in grado di farlo noi.
Cosa cambia, con la legge sul Testamento Biologico approvata dal Senato? Il paziente che vuole interrompere le terapie lo potrà fare; ma, come s’è detto, questo accadeva anche prima. Ognuno di noi può lasciare a suoi fiduciari l’espressione della sua volontà, nel caso si trovi in condizione di non poterla esprimere. Il medico, a sua volta, può “disattendere in tutto o in parte le disposizioni anticipate di trattamento”; in caso di conflitto tra fiduciario e medico, decide il giudice tutelare.
Senza dubbio un piccolo passo in avanti: il cittadino deve però avere l’accortezza di sottoscrivere un “testamento” perché gli sia riconosciuto il diritto di poter disporre della sua persona quando non é in condizione di farlo.
Ci sono voluti ben undici anni per far prendere atto al Parlamento di quanto era già sancito in Costituzione. Vallo a spiegare. Benvenuta, dunque, questa legge, che sarebbe bello prendesse il nome di Pannella-Welby, come propone l’avvocato Giuseppe Rossodivita, che ha assistito Welby e il medico che lo ha aiutato ad “andarsene”. Legge Pannella-Wleby, dice Rossodivita perché “in tutto il suo articolato si colgono le intuizioni costituzionali di cui Pannella si è fatto portatore, e che in quel momento storico, per ignoranza, malafede, propaganda o paura, i più negavano”.
La legge ora rende più “facile”, più “semplice” quello che era possibile già ieri, anche se in pochi lo avevano realmente capito. Tuttavia, cosa non potrà accadere? Prendiamo il caso che ha fatto discutere (e ha commosso), quello di Dj Fabo: un ragazzo vittima di un pauroso incidente che l’ha reso paralizzato al 100 per cento, prigioniero dell’immobilismo e cieco, ma, purtroppo, cosciente. Poteva vivere, voleva morire. Poteva anche lui “lasciarsi andare”: sedato, e aspettare. Avrebbe potuto farlo. Ha preferito lucidamente ingoiare un veleno, ma per poterlo fare ha dovuto “emigrare” in Svizzera. Oltre Chiasso si può fare quello che in Italia non è consentito.
Oggi se Dj Fabo volesse morire come è morto, anche con questa legge non lo potrebbe fare. Dovrebbe ancora andarsene in Svizzera. Ci sono casi, che riassumo per comodità, con dei nomi: Lucio Magri, Mario Monicelli, Franco Lucentini, Carlo Lizzani: per loro (e tanti come loro), la legge non offre altra possibilità che non siano quelle che hanno scelto: clinica svizzera; oppure sfracellarsi dall’ultimo piano di un palazzo.
La grande questione suicidio-assistito e eutanasia resta aperta, tutta da conoscere, indagare. Dibattere. Una politica responsabile non lascia cadere nel silenzio queste morti: avrebbe saputo imporre dibattito, confronto, dialogo, anche duro; e infine predisposto norme, con umanità e misericordia, ma senza elusioni. Ma la bella, bellissima Italia ha tante belle cose: belle donne, bei monumenti, buon cibo, che non ci sono altrove. In qualche modo questo paese doveva pur essere punito: con la classe politica che si ritrova.