Con la morte di Salvatore Riina, il boss di Cosa Nostra chiamato “u’ curtu” per la sua statura modesta, non ci sfiora il pensiero che senza di lui la mafia siciliana appartenga ormai alla storia. Al contrario. Il mai pentito Totò la belva, che si porta nell’aldilà chissà quanti segreti – e che avrà provveduto, in caso di necessità, a minacciare di farli riapparire – semmai “libera” Cosa Nostra dal suo scomodo comando esercitato per ben 24 anni da dietro le sbarre. Quindi addirittura la sua scomparsa potrebbe rilanciare l’organizzazione mafiosa. Riina testardamente ha mantenuto la carica di capo di tutti i capi della cupola mafiosa, perché nessuno ha avuto mai il coraggio di riunirsi per estrometterlo, sicuramente non Matteo Messina Denaro di Castelvetrano, ormai diventato lui il boss dei record della latitanza (già, un fantasma imprendibile).
Quando un boss muore in galera come Riina – in ospedale ma sempre da carcerato – ne viene umiliato anche il suo potere. Un capo di tutti i capi che non riesce a morire libero, che la sua scarcerazione “per motivi di salute” non sia mai avvenuta, é un segnale di grande debolezza, uno smacco grave per Cosa Nostra. Come se l’intreccio di ricatti e contro-ricatti, su cui l’organizzazione criminale mafiosa basa il suo potere, questa volta non abbia funzionato fino alla fine. Il sanguinario Riina, alla fine, non passerà alla storia di mafia come un boss di Cosa Nostra della stazza di un Lucky Luciano, che pur avendo rischiato di marcire in galera, invece per i suoi “servizi” all’America e alla neonata Repubblica italiana (anni 1943-50), muore da uomo libero.
Il magistrato svizzero ticinese Jacque Ducry che aveva lavorato con Giovanni Falcone, che nel 2000 interrogò Riina, in una intervista resa alla notizia della sua morte, ha dichiarato: “…loro sono diventati dei simboli di Cosa Nostra, grazie a svariati livelli di protezione. Da soli non avrebbero mai potuto fare ciò che hanno fatto. A cominciare dalle lunghissime latitanze”.
Altro che morte della mafia. La mafia si nutre di “cover up”, di occultamento della verità. E fino a quando non saranno svelate le coperture e i perché che resero possibile la troppo lunga latitanza di Totò Riina, e poi quella ancora più prolungata del suo boss vicario, Bernardo Provenzano, la mafia resta viva e si rafforza.
Quale segreto, quali accordi anche antichi custodivano questi “malacarne” mafiosi, che li ha mantenuti liberi di operare in Sicilia come uno stato nello stato e liberi di uccidere, all’occorrenza e convenienza, decine di sindacalisti, politici, magistrati, poliziotti, carabinieri, e anche giornalisti? Quanti cittadini e funzionari dello Stato – tutti nati in Sicilia tranne il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa – si sarebbero potuti salvare se Riina, invece che nel gennaio del 1993, fosse stato arrestato venti, dieci, anche solo un anno prima?
Resta la consolazione che lo Stato italiano è riuscito a fare arrivare il boss di Corleone all’appuntamento con l’aldilà da carcerato. Questo è un segnale, finalmente, di “resistenza” al potere di ricatto esercitato ancora dalla mafia. Ma per combatterla fino in fondo, e sconfiggerla definitivamente, la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità deve essere svelata sul perché certi individui semianalfabeti – altro che uomini d’onore, semmai “ominicchi del disonore” – siano stati per così lungo tempo liberi di mantenere così tanto potere, il potere assoluto di vita e di morte, su così tanti cittadini della Repubblica italiana. Solo confessando le responsabilità sul “mistero mafia”, su questo “strumento di governo locale,” come già accusava il deputato ed ex magistrato del Regno d’Italia Diego Tajani nel lontano 1875 (1875!) puntando il dito contro gli scranni del governo, ecco che, anche dopo la morte di un boss come Riina, sì che potremmo uccidere definitivamente anche la mafia.