La mia sveglia durante la settimana è alle sei del mattino. Per qualche motivo il 2 ottobre, alle 5.30, ero già in piedi. Ho buttato come per abitudine un occhio al telefonino e ho visto la luce dei messaggi che lampeggiava. Ho saputo dall’Italia quello che stava accadendo a Las Vegas, che quella che fino a domenica alle 21:00 era conosciuta come la capitale mondiale del divertimento, la città del What happens in Vegas stays in Vegas, si è svegliata con addosso l’orribile primato di essere la città americana con il più alto numero di morti e feriti in una sparatoria. 59 le persone decedute e 527 i feriti. Roba da autobomba in Irak o Pakistan. Invece siamo nella città dei casinò, delle luci, un’immensa luminaria 365 giorni l’anno che nei prossimi giorni dovrà invece celebrare 59 o forse più funerali.
What happened in Vegas, alle 21.30 di domenica 2 ottobre, non è rimasto in Vegas, ha fatto il giro del mondo raccogliendone la solidarietà ma anche la solita consunta domanda: perché sempre in Usa? Adesso gli investigatori dicono che l’autore del massacro avesse con sé un arsenale, cosa di per sé non impossibile per nessun americano medio vista la facilità con la quale si vendono le armi, ma in questo caso l’arsenale è servito per compiere la più grave carneficina della storia americana. L’autore un mediocre signor Nessuno, Stephen Paddock, arrivato sulla strip da una ancora più mediocre località, Mesquite, 140 km a ovest di Las Vegas famosa per il suo niente e per il suo casinò e campo da golf. Da domenica la ricorderanno in molti. Las Vegas pur essendo meta di milioni di turisti non è esattamente una città grandissima, circa due milioni di abitanti, compresa tutta la Clark County, e nella comunità italiana ci si conosce più o meno tutti anche se solo per nome. Per qualche fortuita coincidenza domenica sera nessuno degli italiani che vive qui è rimasto coinvolto nella sparatoria. C’erano però italiani vicino al Mandala Bay, altri a lavorare nei casinò lungo la strip. Morena Ferrari, a Las Vegas da vent’anni domenica sera aveva suo marito Charles a pochi metri dal piazzale dove si svolgeva il concerto. Charles fa il tassista per Uber, quando la gente ha iniziato a scappare cercando rifugio lui ha caricato quante più persone nella sua auto per portarle al sicuro.

Erano in 22mila nel piazzale antistante il Mandala Bay, i sopravvissuti raccontano alla radio nelle interminabili interviste che non c’era nulla dietro cui nascondersi. Alcuni sono riusciti ad entrare in uno di quei camion container vicino al palco mentre fuori altri cercavano invano un minuscolo spazio per salvarsi. In molti all’inizio non avevano capito, gli spari sono iniziati quasi al termine del concerto, pensavano fossero fuochi d’artificio sparati dal Mandala. Stephen Paddock aveva modificato il suo AK47 con un kit che si può ordinare tranquillamente online, ha trasformato la sua arma da semiautomatica ad automatica, bastava tenere il grilletto premuto, una modifica che va a scapito dell’accuratezza della mira, dicono gli esperti, ma a Paddock non interessava niente della mira, aveva 22mila persone innocenti su un piazzale largo centinaia di metri. Era comunque certo di ottenere quello che la sua mente malata aveva pianificato per settimane. Ciò che è successo a Las Vegas ha, in qualche modo toccato anche me, perché ha coinvolto persone che conosco. È una maestra elementare della scuola di mio figlio, Morgan Burns una ragazza di 23 anni. Si trovava nel gruppo degli spettatori colpiti per primi, da domenica sera è chiusa in casa sotto shock: “Sembravano immagini che uno pensa di vedere solo in guerra – racconta – le persone vicino a me dilaniate dai colpi, sangue ovunque e noi disperati che dovevamo calpestare i morti per cercare di allontanarci”. Alla follia omicida Las Vegas ha risposto fin dai primi minuti nel miglior modo possibile, e non semplicemente per l’intervento della polizia, dei vigili del fuoco, ben 188 provenienti anche dalle città vicine. Las Vegas ha reagito come comunità, le file con ore di attesa per donare sangue, alcune scuole hanno addirittura allestito dei centri di raccolta sangue, gruppi completamente volontari di psichiatri, psicologi e assistenti sociali che da domenica assistono, senza riposare, i sopravvissuti.
Il Mandala Bay ospita al suo interno the Shark Reef, un interessante acquario meta ogni giorni di famiglie con bambini. Per i locals, come vengono definiti gli abitanti di Las Vegas, è una delle mete preferite se si decide di fare un giro sulla strip. Stephen Paddock, se avesse voluto, avrebbe potuto compiere una strage degli innocenti proprio lì, se invece di riversare la sua follia su ignari spettatori di un concerto, avesse aspettato l’indomani mattina davanti l’ingresso dell’acquario.