Sono arrivato a Charlottesville, cittadina che ospita la University of Virginia, nel gennaio del 1990. Venivo da Bozzolo, e dall’Università di Parma. Conoscevo perfettamente la grammatica inglese e discretamente la letteratura, ma facevo fatica a capire la gente che mi parlava e riuscivo solo a dire qualche frase semplice semplice. Non avevo mai preso un aereo prima, non avevo mai toccato un computer, avevo fatto qualche giorno di supplenza e insegnato religione nelle scuole elementari di Bozzolo, e quella era tutta la mia esperienza di insegnamento.
Nel viaggio in autobus da Washington D.C. a Charlottesville guardavo al finestrino un paesaggio che mi ricordava tanto quello verde e pianeggiante a cui ero abituato. Ero seduto vicino a un vecchio professore inglese di letteratura spagnola sposato con una signora di Bologna. Assomigliava a Stanlio e mi sembrava che parlasse italiano come lui.
Era una domenica. Al lunedì mattina ero in una classe con una ventina di studenti americani che non dicevano una parola di italiano. Dovevo insegnarglielo io senza mai parlare inglese, questa era la regola alla quale nei primi mesi non feci alcuna fatica ad attenermi. Alla fine del trimestre loro parlavano italiano e io inglese.

Alla University of Virginia (abbreviato U.Va., pronunciato iuviéi) ho incontrato il mio primo amico nero e il mio primo amico ebreo; sono andato per la prima volta a una funzione protestante, celebrata da una reverenda bravissima che assomigliava un po’ alla mia mamma, con la testa cotonata, gli orecchini e un velo di rossetto. A U.Va. per la prima volta ho visto ragazzi e ragazze che non avevano vergogna o paura di dichiararsi gay o lesbiche. Su un ponticello qualcuno aveva scritto con lo spray “It’s OK to be gay at UVA!”
A Charlottesville ho sentito per la prima volta il profumo della libertà e ho assaporato la bellezza della diversità. Mi trovavo davvero in una ‘università’ perché in quel paesone c’era l’universo mondo. Nella grande casa dove abitavo c’era una spagnola che studiava Faulkner, una iugoslava che studiava la letteratura del rinascimento spagnolo, una trentina appassionata di Virgilio e un’americana che studiava le scrittrici francesi del ‘900. Ci accomunava uno smodato amore per il cioccolato fondente e quando ritornavamo a casa alla sera in segreteria telefonica c’erano messaggi almeno in 6 o 7 lingue diverse.
Man mano che imparavo l’inglese, cominciavo anche a conoscere la storia gloriosa e allo stesso tempo imbarazzante di quell’università che a me sembrava un’isola felice dove tutti andavano d’accordo. Era stata fondata da Thomas Jefferson, il terzo presidente degli Stati Uniti, l’autore della Dichiarazione d’Indipendenza, forse il testo legislativo più potente della storia, con quell’articolo indimenticabile:
“tutti gli uomini sono creati eguali; (..) essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, tra questi diritti vi sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità”. Il presidente illuminato e illuminista, aveva anche concepito il bellissimo campus (il più bello degli USA, l’unico riconosciuto dall’UNESCO come patrimonio dell’umanità) ispirandosi all’architettura neoclassica del nostro Palladio. Evidentemente, però, quel “tutti” della Dichiarazione per il suo autore non includeva gli uomini e le donne africane rapiti dalle loro terre e venduti come bestiame sulle piazze delle 13 colonie. Jefferson non disse mai nulla contro la schiavitù, egli stesso possedeva schiavi e addirittura ebbe da una di essi un figlio che non riconobbe mai ufficialmente.
Lo stemma dello stato della Virginia rappresenta un’altera ragazza in peplo che brandisce una spada e calpesta un uomo morto. Il motto recita “sic sempre tyrannis”. Un forte messaggio repubblicano, attribuito a Bruto, contro le ambizioni del re d’Inghilterra, ma anche lo slogan urlato da John Wilkes Booth mentre assassinava Abraham Lincoln, il Presidente che aveva osato liberare gli schiavi nonostante l’opposizione delle colonie del Sud.
Negli anni ’60 la Virginia oppose la “massive resistance” alla sentenza della Corte Suprema che imponeva di integrare studenti neri e bianchi nelle scuole pubbliche. Robert Kennedy, il politico americano che, forse più di tutti ha fatto per dare dignità e forza di legge alle istanze del movimento per i diritti civili, si laureò in giurisprudenza in questo ateneo quando ai neri e alle donne era ancora rifiutata l’ammissione.
Sabato sera quando Charlottesville e il ground della mia Alma Mater sono stati profanati dalla manifestazione di terroristi neonazisti, fanatici della supremazia bianca e membri del Klu Klux Klan è come se tutte le contraddizioni di questo luogo emblematico nella storia degli Stati Uniti fossero esplose ancora una volta.

Non è un caso che queste manifestazioni siano state reazioni alla rimozione della statua del generale ribelle Lee e delle bandiere sudiste da un parco pubblico, che per somma ironia, è intitolato all’Emancipazione.
La Virginia, e con essa, tutta l’Unione non hanno ancora fatto i conti con la loro storia, o li hanno fatti in modo solo formale. Ed ecco che basta che appaia sulla scena un presidente irresponsabile, come Donald Trump, che nella sua campagna elettorale ha istigato pubblicamente i suoi seguaci a fare uso della violenza contro avversari e minoranze perché l’America razzista, retrograda e violenta mostri il suo volto criminale e arcigno sentendosi legittimata e protetta nelle sue rivendicazioni assurde e antistoriche.
Ma i morti e i feriti di Charlottesville devono servire da monito anche a noi europei che non siamo immuni da quei rigurgiti di razzismo che, inevitabilmente, portano solo divisione, violenza e morte.