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June 29, 2017
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Terrorismo: per non accontentarsi delle rassicuranti giaculatorie

Il terrorismo islamico attrae sempre di più giovani e giovanissimi: il motivo?

Valter VecelliobyValter Vecellio
Terrorismo: per non accontentarsi delle rassicuranti giaculatorie
Time: 4 mins read

Occorre cercare di farlo, un ragionamento che vada al di là del frou frou giornalistico: che spesso, per voler colpire ad effetto, spaccia veleni che al confronto le “very fake news” spesso citate dal presidente Donald Trump sono cose da apprendisti dilettanti. La questione su cui occorre prestare attenzione, cercare risposte senza accontentarsi di automatiche e rassicuranti giaculatorie, è come mai in mezzo mondo centinaia di ragazzini (e, beninteso, ragazzine) decidono un giorno di arruolarsi nell’ISIS; e non lo fanno per “fede”, non hanno particolari scopi religiosi. Uno di questi mini-boia, di nazionalità francese, che opera (o ha operato) tra la Siria e l’Irak, mentre si esibiva nella decapitazione di un ostaggio di nazionalità statunitense e di una ventina di militari siriani, recita: “Tagliare teste ed esibirle è la volontà di Allah”.

Si potrebbe credere che dietro a questi delitti e a questi macabri rituali vi sia una fede religiosa, per quanto estremizzata e fanatizzata. Sì, a patto di riconoscere che altrettanto “estremiste” e “fanatiche” erano le crociate, quando i monarchi cattolici d’Europa volevano liberare Gerusalemme e in Santo Sepolcro, e che altrettanto “estremista” e “fanatica” è stata la guerra dei Trent’anni, prima che si arrivasse alla pace di Vestfalia. Invece no: come ogni buon storico e cultore di storia sa, “l’estremismo” e il “fanatismo” religioso erano “solo” lo strumento cui faceva leva una precisa ragione politica; un preciso calcolo di potere: molto terreno e molto poco divino. Così oggi: l’ISIS non è un movimento religioso: è piuttosto un’organizzazione composta in larghissima misura da fanatici ed estremisti, che però fa politica. Ed è, a sua volta, strumento politico. L’Islam e Allah sono “schermi”, per precise ragioni politiche; per precisi calcoli di potere.

Quell’orribile slogan sul taglio delle teste e la loro esibizione per compiacere Allah può certamente rivelare anche un dato “culturale” dei responsabili dell’ISIS, e lo si può riassumere così: dovete convincervi che la vittoria sarà, alla fine, nostra, perché noi non abbiamo paura della morte. Ma quello che dovrebbe inquietare e far riflettere, oltre a chi manovra e ha interesse a questa “guerra” (chi coltiva questa ragione politica, chi ne ricava beneficio e vantaggio), è il fatto che sia così “facile” convincere ragazzi e donne a “partire”; lasciare le città d’Europa con la sola prospettiva e ambizione di imparare a massacrare, e poi farlo, e farsi uccidere.

Si prendano i casi conosciuti. Li si analizzino. Sarebbe già un punto di partenza se si individuasse, nei vari casi, un comune denominatore. Invece no. Può accadere che uno sia originario di uno sperduto, sconosciuto paesino della Normandia, una vita serena, tranquilla, “anonima”, fino a quando “click”, si converte all’Islam e diventa quello che diventa. Ma accade in Regno Unito, in Germania, in Italia. I servizi segreti hanno azzardato un censimento: tra i tremila e i cinquemila. Arruolati, si comincia con un vero e proprio indottrinamento via Internet; inizialmente viene fatto baluginare un obiettivo “umanitario”: aiutare le vittime della guerra. Poi, quando si arriva sul posto, la fase due: addestramento, fino a trasformare la vittima in carnefice spietato. Anche i video che mostrano le decapitazioni e le altre esecuzioni (i considerati apostati condannati a morire tra le fiamme), non dissuadono, tutt’altro: diventano strumento di nuovi reclutamenti; e il boia si trasforma in eroi. Chi studia questo inquietante fenomeno nota la sempre più giovane età; il fatto che sono quasi sempre “figli” o “nipoti” di una generazione immigrata da tempo; “figli” e “nipoti” esclusi, a differenza di “padri” o “nonni”. Ma non necessariamente; ce ne sono anche di istruiti, benestanti, provenienti da una classe agiata e “media”.

Dunque? Attivare gli strumenti della sociologia? Scomodare il fatto che alcuni di questi boia possono essere animati da odio e violenta avversione nei confronti del “sistema”, quale sia? Che non vedono (perché non vogliono vedere), prospettive ed evoluzione? Perché subiscono un irrazionale fascino della violenza, come tante altre volte è accaduto in passato, e anche di recente? L’ISIS da questo punto di vista è un bel patchwork: patriarcato maschilista; obbedienza non discutibile al Capo; cultura della morte (come non ricordare il “Viva la muerte” dei falangisti spagnoli agli ordini di Franco?). Poi c’è la “cultura” dell’antiperialismo, che fa tutt’uno con l’antioccidentalismo; e non dimentichiamo che per quel che riguarda la “coreografia” si è arrivati prima: alla fine è qui in Occidente che si sono inventati i roghi per eretici, streghe e fattucchiere; era molto ligio agli ordini papeschi, il celebre Mastro Titta; sostituito poi, grazie al Terrore dei Robespierre, dalla più professionale ghigliottina: e anche allora si “esibiva” la testa del “mozzato”… Questo lo si dice non perché si nutrano dei complessi di colpa. Solo perché per cercare di capire è anche bene non smarrire la memoria di quello che è stato; e perché.

Cosa ricavarne? Figuriamoci: qui già è molto mettere in fila elementi e, sperabilmente, suscitare qualche riflessione. Certo, sorveglianza, certo maggiore sicurezza e capacità di lettura di informazioni raccolte. Tutto questo va bene; ma siamo nella fase della cura, quando si manifesta la malattia. E’ piuttosto carente la prevenzione. Per quel che riguarda l’ISIS, forse più che parlare di radicalizzazione dell’Islam ci si dovrebbe porre la questione dello jihadismo. Significa separare la politica dalla religione, la barbarie dalla fede. Questa operazione potrebbe mettere in chiaro le precise ragioni politiche; i precisi calcoli di potere. E anche, chissà, contribuire ad aprire a qualcuno, e a evitare qualche testa mozzata.

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Valter Vecellio

Valter Vecellio

Nato a Tripoli di Libia, di cui ho vago ricordo e nessun rimpianto, da sempre ho voluto cercare storie e sono stato fortunato: da quarant'anni mi pagano per incontrare persone, ascoltarle, raccontare quello che vedo e imparo. Doppiamente fortunato: in Rai (sono vice-caporedattore Tg2) e sui giornali, ho sempre detto e scritto quello che volevo dire e scrivere. Di molte cose sono orgoglioso: l'amicizia con Leonardo Sciascia, l'esser radicale da quando avevo i calzoni corti e aver qualche merito nella conquista di molti diritti civili; di amare il cinema al punto da sorbirmi indigeribili "polpettoni"; delle mie collezioni di fumetti; di aver diretto il settimanale satirico Il Male e per questo esser finito in galera... Avrò scritto diecimila articoli, una decina di libri, un migliaio di servizi TV. Non ne rinnego nessuno e ancora non mi sono stancato. Ve l'ho detto: sono fortunato.

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