Tentiamo di considerare i fatti e le coincidenze, di cui la settimana è stata sicuramente prodiga. Già lunedì la Corte di Cassazione aveva emesso la nota sentenza su Salvatore Riina.
Sullo specifico punto, del “morire nel proprio letto”, si può convenire oppure no, legittimamente; ma solo su questo: non sulla valutazione, rimessa al Tribunale di Sorveglianza, circa la “compatibilità” o meno del regime penitenziario con la malattia (se è compatibile, rimane e si cura lì, altrimenti, esce e si cura dove può; e non c’è altro).
I demeriti di Riina, che é impossibile sopravvalutare, possono rendere la scelta difficile. Si deve piena comprensione a chi sente (proprio come quasi un malessere psico-fisico) la difficoltà della scelta, quale che sia il giudizio (sì, no) a cui mette capo.
Ma la comprensione per l’altrui opinione non è di questo mondo, o non di tutto, a quanto pare.
E andiamo a ieri. Il magistrato Ilda Boccassini, ha dichiarato: “Il provvedimento dei giudici di sorveglianza di Bologna è stato un atto di giustizia e non di vendetta nei confronti del pluriergastolano Salvatore Riina.”. E, fin qui, sembrerebbe anche questa un’opinione. Ma poi ha proseguito:
“Ho percepito, al contrario, come inappropriate e per nulla condivisibili le dichiarazioni del presidente dell’Associazione magistrati. Mi auguro che, in questo caso, le sue parole non rappresentino il pensiero della maggioranza dei colleghi. Soprattutto -mi pare doveroso sottolinearlo- di quanti, in silenzio e rifuggendo la luce dei riflettori, ogni giorno si adoperano nel contrasto al crimine organizzato, e in generale per garantire ai cittadini una giustizia giusta”.
Formulazioni cosí perentorie agevolano chiare inferenze, anche per l’unico che qui risultasse fesso:
- il “contrasto al crimine organizzato” costituisce criterio di legittimazione esclusivo, e generale, della funzione giudiziaria
- solo chi se ne occupa può stabilire la giustizia vera (o “giusta” che dir si voglia);
- la legge, non integrata dal suddetto “contrasto”, non é sufficiente per un “giusto” esercizio della suddetta funzione giudiziaria, o “giustizia”;
- il dissenso da questa asserzione non è espressione di legittima opinione, ma pone ogni appartenente all’Ordine Giudiziario che lo manifesta in una condizione “impropria”: cioè, non compresa nel perimetro di ciò che, nella superiore materia del “contrasto al crimine organizzato”, spetta all’Ordine medesimo, e, dunque, al singolo magistrato;
- inoltre, poichè questa non è una opinione, ma una “improprietà”, essa tradisce un contegno essenzialmente vocato alla vanità e all’esibizione di sè: che si addita a pubblica riprovazione, non disgiunta da venature di sarcasmo (sappiamo che il dott. Davigo è stato un cenobita, da Presidente dell’ANM e anche ora: per questo la dott.ssa Boccassini non ha mosso rilievi al riguardo);
- é auspicio di chi impersona tale, esclusivo, criterio di legittimazione “contrastivo” della funzione giudiziaria, che i dissenzienti, portatori di un’interpretazione impropria, siano ridotti a minoranza silenziosa.
Di passata, si può notare che, se l’auspicio dovesse essere accolto, l’ANM dovrebbe considerare o la possibilità di essere rappresentata da una cripto-minoranza; o di agire convenientemente per ripristinare una adeguata corrispondenza fra “giusto” pensiero della magistratura e sua rappresentanza; data la precisata superiorità del criterio indicato, valevole “in generale”, per definire una “giustizia giusta”.
Come pure si può notare che tanto i collegi della Corte di Cassazione, quanto quelli dei Tribunali sono costituiti da magistrati.
Ora, per avere un’idea di come sia culturalmente ed istituzionalmente significativa, e pressante, la presenza di una “idea di superiorità interpretativa”, e di quali difficoltà, anche operative, possa comportare, può essere d’aiuto quanto, pure ieri, ha dichiarato il dott. Franco Gabrielli, Capo della Polizia.
Commentava una decisione del CSM, emessa in margine alla vicenda Consip: tutt’altra storia. Ma qui interessa l’aria che tira, non il particolare.
Il Consiglio Superiore della Magistratura ha chiesto formalmente al Governo di promuovere l’abrogazione di una ben precisa norma; la quale impone al personale della Polizia di Stato di riferire per via gerarchica, quindi fino al Capo, il contenuto delle indagini in corso. Poichè l’Ordine Giudiziario, largo di inefficienze, evidentemente lo è anche di sense of humour, lo scopo dell’iniziativa è prevenire compromissioni al segreto delle indagini; la cui cura, ovviamente, culminando la via gerarchica propriamente fino al Ministro, cioè, alla “Politica”, non può che essere affidata alle mani della Magistratura: le uniche certamente sicure.
Ciò posto, Gabrielli ha parlato di “disonestà intellettuale”, non a proposito di persone, ma, giustappunto, di un’idea, che è questa: “sostenere che in questo Paese esistono pochi cavalieri bianchi, le cui mani vengono legate da vertici di Polizia corrivi con la Politica e le sue convenienze, servi di un progetto eversivo che avrebbe dovuto cambiare prima la Costituzione e poi mettere in un angolo la magistratura”. C’è “un pregiudizio, da cui questa falsità muove”; si ritiene, cioè “…che una categoria interpreti meglio il principio di fedeltà repubblicana di altre”. Chiaro come il sole.
E per (non) concludere con ieri, la Corte di Cassazione ha reso definitiva l’assoluzione del Generale Mario Mori, già direttore del SISDE: quintessenza di un “vertice di polizia” (intesa generalmente come forza armata civile: anchè perchè Gabrielli, a proposito del potere di trasmissione informativa gerarchica, aveva svolto un formale ed espresso parallelo con gli identici poteri di Carabinieri e Guardia di Finanza).
L’imputazione per Mori era di aver favorito Bernardo Provenzano, omettendone la cattura; sappiamo che è stato anche accusato, e del pari assolto, dall’accusa di avere nascosto, alla Procura della Repubblica di Palermo, la mancata perquisizione della casa-rifugio di Riina; ed infine, è ancora a giudizio nel processo-Trattativa, compendio per ogni ipotesi di infedeltà di Servizi investigativi e della “Politica”, rispetto alla “fedeltà repubblicana”: la cui fissazione si è ritenuta appannaggio insindacabile di “una categoria di interpreti”.
E pareva finita qui, la settimana. E, invece, il giorno dopo la Cassazione su Mori, cioè, oggi, la Procura della Repubblica di Palermo deposita, proprio nel processo Trattativa, una copiosa integrazione probatoria (circa 5000 pagine la documentazione), avente ad oggetto conversazioni in cella, avvenute nell’Aprile 2016, fra Giuseppe Graviano, condannato per associazione di tipo mafioso, strage ed altro, e un altro detenuto. Per ora è trapelato quello che viene presentato come un riferimento a Silvio Berlusconi, quale possibile mandante delle stragi: “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia… per questo è stata l’urgenza…”.
Questa, grosso modo, l’epigrafe della novità. Naturalmente, sappiamo che avremo di che leggere, nelle prossime settimane, perciò, per ora, ci fermiamo qui. Giusto per dare atto anche di quest’altra coincidenza .
Dunque, dopo vent’anni sotto processo (per ora), è stato reso all’uomo Mario Mori un documento simbolico prezioso (la sentenza di assoluzione): ma non la sua vita. Che è un altro simbolo, a sua volta: dell’aria che tira. Come non mancano di ricordarci pure gli ultimi aggiornamenti, è una brutta aria. E non finisce mai.
“Chi controlla il passato, controlla il futuro; chi controlla il presente, controlla il passato”, diceva Orwell. Siamo ancora lì.