Andare a Milano, nel regno (vero o presunto lo diranno le prossime elezioni) della Lega Nord di Matteo Salvini che di stranieri in Italia non ne vuole proprio, è stato da parte degli organizzatori non tanto prova di coraggio, quanto di forza. Sabato 20 maggio erano in 100mila alla marcia per la solidarietà e l’integrazione, scodellando nuovamente la questione immigrati e rifugiati nell’ordine del giorno della politica nazionale ed europea.
Già, perché la prima questione su cui capirsi, nella never ending story delle migrazioni dal sud del mondo al sud dell’Europa, è se la cosa riguardi solo i paesi di frontiera come Italia e Grecia, o l’intera Unione Europea. Ovvio che chi sbarca nei porti di frontiera non pensi a voler restare nei due paesi del Mediterraneo europeo, in condizioni tra le più critiche dell’intera Unione, ma voglia andare verso paesi più ricchi e con più opportunità. Di questi tempi, Italia e Grecia non sanno sfamare neppure i propri concittadini: come potrebbero dare un futuro di certezze a tutti coloro che arrivano sulle loro coste in situazioni tanto disperate?
Il futuro di quelle persone bisognose di protezione non può essere che materia del complesso dell’UE, soggetto che ha frontiere esterne comuni e nessuna frontiera interna. Non può riguardare il solo paese di attracco, come invece recita il compromesso di Dublino raggiunto tra i capi di stato e di governo degli allora Dodici nel lontano giugno 1990. All’epoca occorreva armonizzare le politiche di protezione di rifugiati e richiedenti asilo, secondo quanto previsto dalla convenzione di Ginevra del 1951 e dal protocollo di New York del 1967. Non si aveva la più pallida idea degli sconvolgimenti demografici e dei sommovimenti politici che nel quarto di secolo successivo la globalizzazione avrebbe prodotto in termini di movimento di migranti e richiedenti asilo.
La scala raggiunta dal fenomeno, con incrementi di sbarchi nell’ordine delle centinaia di migliaia di unità l’anno, non consente a nessun paese membro di far fronte da solo all’emergenza, nel rispetto dei trattati internazionali.
La seconda questione sulla quale incrociare gli interrogativi è se un fenomeno così cospicuo in termini sociali, economici e culturali possa essere gestito senza adeguato livello di governo, amministrazione, approccio politico.
Accade specialmente in Italia che non vi sia coerente risposta, perché si evita di pronunciarsi a favore dell’equilibrio tra le due esigenze la cui soddisfazione è egualmente necessaria: l’interesse nazionale (ed europeo) da un lato, l’interesse della persona che intende immigrare o fare richiesta di protezione dall’altro. Senza praticare il principio di equità verso ambedue gli interessi, nessuna politica sull’immigrazione e sull’asilo potrà avere successo.
Se infatti si aderisse soprattutto alla prima esigenza, si farebbe l’errore dell’attuale presidente degli Stati Uniti: rendere questione di stretto egoismo nazionale, un fenomeno che va visto nella sua natura circolare, coinvolgendo il sistema internazionale e non soltanto il paese al quale è richiesta assistenza. Se si aderisse soprattutto alla seconda esigenza, si renderebbero gli stati, costituiti essenzialmente per la tutela dei loro cittadini, strumento dispensatore di favori e assistenza per stranieri, senza alcun presumibile vantaggio per la costituency nazionale dal quale lo stato e la maggioranza di governo derivano il potere.
E’ solo il contemperamento delle due esigenze che può evitare, tra gli altri effetti negativi, quello di rafforzare i movimenti xenofobi e nazional-populisti. Si è visto, infatti che in diversi paesi i flussi in ingresso non regolati e governati, possono influenzare il dibattito politico interno alle nazioni di accoglienza, e portare anche a cambiamenti politici profondi.
E’ successo in particolare negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Il recente sconvolgimento del loro quadro politico ha preso le mosse proprio dalle posizioni che i governi degli ultimi anni avevano assunto in materia di flussi all’immigrazione. Significa che vi è uso politico dei flussi di immigrazione e rifugiati, e che detto uso produce voti elettorali tendenti a sostenere maggioranze di governo o minoranze di ricatto. Significa che, siccome il voto popolare viene espresso sulla base di convinzioni o sentimenti che si hanno al momento, se si usa l’argomento degli immigrati in modo appropriato ai fini xenofobi e nazionalisti, si possono ottenere risultati utili a contrastare sia il fenomeno immigratorio, sia le forze che lo accettano e provano a governarlo.
Sono due i meccanismi che consentono di rafforzare in termini elettorali, quindi di maggioranza o minoranza di governo, lo schieramento che si oppone alle immigrazioni: falsificare i dati così che la loro percezione ponga l’elettore in linea con chi vuole utilizzare il suo voto a prescindere dai dati effettivi (tipico il fatto che se interrogate qualcuno, vi darà numeri di immigrati superiori a quello vero, mai inferiore), produrre una narrazione del “viaggio” dei migranti, tale da farli figurare come stranieri/nemici, di religione diversa, potenziali terroristi, ladri del lavoro dei nazionali.
La destrutturazione progressiva delle tradizionali conformazioni politiche e di rappresentanza degli interessi (i partiti storici, i sindacati, le associazioni di interesse, le chiese, i club di orientamento politico e filosofico, etc.) e il simultaneo montare, grazie all’uso di social e strumenti della società dell’informazione in genere, della società polverizzata dove i singoli sono sempre più soli, rende più facile il successo delle due manovre. La società polverizzata, senza più corpi intermedi e rappresentanze, cade nella trappola del rapporto carismatico/affettivo con un capo (religioso, sociale, culturale, sportivo, o politico, poco importa) verso il quale si crea devozione, obbedienza, fede e adesione acritiche.
In questo schema, l’immigrato da risorsa utile e talvolta necessaria, diviene esca di cambiamento politico in senso regressivo e autoritario. La ricetta per curare detta possibile infezione socio-politica è necessariamente complessa. Passa innanzitutto attraverso l’informazione, così che realtà percepita e realtà effettiva siano il più possibile prossime. Passa poi attraverso misure legislative di governo delle immigrazioni, per evitare che la scala, quantitativa e qualitativa, del fenomeno, possa mettere a rischio le democrazie liberali, favorendo la presa del potere da parte dei nazional-populismi.
Non tener conto dei possibili effetti della scala potrebbe avere, come primo risultato negativo, la flessione dei livelli di democrazia nei paesi di immigrazione. Come secondo paradossale effetto, l’apposizione, da parte di maggioranze che includano i nazional-populisti, di limiti durissimi ai flussi di immigrazione e misure discriminatorie verso migranti e richiedenti asilo.
I centomila di Milano non si sono curati del rischio politico delle immigrazioni non governate, aderendo al modello di marcia per gli immigrati e contro il razzismo, espresso dalla città catalana di Barcellona mesi fa. Con ciò dimenticando che la Spagna è paese mediterraneo che, diversamente da Italia e Grecia, attua il sigillo delle frontiere marine, grazie anche agli avamposti in territorio marocchino che ha mantenuto nonostante la fine del colonialismo. Se la Spagna ha bisogno di aprire alle immigrazioni, noi abbiamo un altro bisogno, quello di governarle.
E per almeno due ragioni. Perché possono raggiungere una scala che potrà generare impatti culturali, politici e di sicurezza rischiosi, come già accaduto in altri paesi. Perché all’interno dell’accoglienza non governata, è più facile che accadano episodi lesivi della dignità umana degli stessi immigrati o richiedenti asilo. Tutti i fenomeni sociali vanno regolati e governati, figurarsi uno così complesso come le immigrazioni e gli arrivi di rifugiati di massa.
Hanno fatto bene Milano, città da sempre di accoglienza, con la manifestazione guidata dal sindaco Beppe Sala e dal senatore Pietro Grasso, a ribadire di stare dalla parte dell’integrazione e dell’accoglienza. Ma hanno fatto ancora meglio gli ottanta sindaci dell’area metropolitana che hanno firmato col ministro degli interni Minniti il protocollo per l’accoglienza distribuita sul territorio. Altrettanto dicasi dell’affannarsi del ministro con libici e altri africani, per trovare il modo di convincere chi vuole emigrare a trovare ragioni per restare nella terra delle origini.
Purché l’Italia eviti la situazione schizoide nella quale si sta infilando, con un numero di immigrati e richiedenti asilo che continua a salire, un numero consistente di immigrati che rientra nel paese di origine, e soprattutto un numero crescente di italiani soprattutto nell’età professionale migliore (18-49), che vogliono andarsene ed effettivamente se ne vanno. Inchieste d’opinione approfondite, fanno concludere che l’88,3% dei nostri Millennials ha, almeno psicologicamente, la valigia in mano per abbandonare il paese. L’istituto Toniolo commenta che l’attuale è la prima generazione di italiani che non si chiede se sia il caso di partire, ma se sia ancora il caso di restare. Gli iscritti ad Aire erano poco più di 3 milioni nel 2006. Dieci anni dopo arrivavano a quasi 5 milioni: un numero che equivale a quello dei nostri immigrati legalizzati.
Manca, nell’elenco degli sforzi che si compiono per costruire il governo delle migrazioni, quello indispensabile dell’Unione Europea. Dovrà necessariamente prodursi, salvo dover accompagnare all’uscita di scena per manifesta incapacità il presidente della Commissione, il democristiano lussemburghese Jean-Claude Juncker. Impensabile che la Commissione Europea non trovi il modo di far osservare ai paesi riottosi, gli impegni assunti in sede unionale sulla ricollocazione dei rifugiati. E’ scandalo politico, oltre che sociale, e riguarda l’incapacità ad esercitare poteri previsti dai trattati di Lisbona e attribuiti alla Commissione Europea.
E’ certamente complessa la questione delle migrazioni internazionali nel tempo della globalizzazione, come mostra il dibattito che investe le istituzioni di livello federale e statale, così come il corpo giudiziario, in paese di antica e collaudata immigrazione come gli Stati Uniti.
Sembra che si possa condividere come orientamento da perseguire, quello indicato nel libro appena uscito presso Aracne editrice, a firma dell’italiana Emanuela Claudia Del Re e dell’americano Ricardo René Larémont, Pursuing Stability and a Shared Development in Euro-Mediterranean Migrations, presentato al Centro di Studi Americani di Roma. E’ la ricerca della stabilità e la creazione di condizioni per lo sviluppo condiviso che può fornire la risposta definitiva alla questione migratoria, non gli slogan opposti e insieme estremi, ad uso tutto politico del Salvini (“Fermiamo gli invasori”) e Grasso (“Sia cittadino italiano chi nasce e studia in Italia”) di turno.
Il libro, in quasi 500 pagine di indagini approfondite, descrive gli scenari mediterranei presumibili, approfondendo paese per paese la situazione socio-economica e la predisposizione all’uscita. Prende in esame le politiche dell’Unione Europea e ne spiega i limiti e quali indirizzi dovrebbe assumere per essere effettiva. Approfondisce le questioni di genere legate alle migrazioni, così come il legame strettissimo tra conflitti ed esodo di coloro che chiedono protezione.
Di rilievo le raccomandazioni che gli autori fanno a coloro che devono assumere decisioni in materia, specie quando evidenziano come l’inazione e la retorica dei governi diano spazio ai trafficanti di esseri umani e alle loro azioni criminali, alle tratte, al gonfiarsi delle sacche di irregolari, e come invece la loro collaborazione sul tema migratorio potrebbe accrescere le potenzialità positive di fenomeni come le migrazioni circolari e il flusso delle rimesse.