Non è un bello spettacolo quello che la Commissione Europea continua a mandare in onda, cumulando ritardo a ritardo, errore ad errore. Si discuterà all’infinito se l’inazione, o peggio, della Commissione sia necessitata dalla volontà dei governi dei 27 di attendere i risultati delle elezioni in Francia e Germania o dalla pochezza di leadership della compagine che abita il palazzo Berlaymont. Il risultato non cambia: le istituzioni ideate da Jean Monnet languono, e ciò appare davvero paradossale, alla vigilia delle fanfare celebrative dei 60 anni (Roma, 25 marzo) di inizio del gioco europeista.
Continuare a dotare la presidenza della Commissione di mezze cartucce espresse da piccoli paesi non aiuta il futuro dell’Europa, che ha bisogno, in questa fase, di leader innovativi e di carisma. Dopo i lunghi anni dell’inconsistenza del portoghese Jose Manuel Durao Barroso tocca ora a quelli del lussemburghese Jean-Claude Juncker, che passa inopinatamente dai ruggiti dell’innocuo leone arrochito e sdentato (v. le posizioni sulla redistribuzione dei migranti o sui principi di flessibilità dei bilanci nazionali) al totale sopore. L’ultima testimonianza dell’irritante atteggiamento di presidente e collegio commissariale, è nel “Libro Bianco sull’avvenire dell’Europa“, presentato al Parlamento Europeo il 1 marzo. Nella tradizione di Bruxelles, libro bianco è un documento relativamente breve, che costituisce la piattaforma di misure, talune anche vincolanti, che dovrebbero essere fatte proprie dall’insieme delle istituzioni previste dai trattati. Fa talvolta seguito al cosiddetto Libro Verde, lanciato come base di discussione e presa di posizioni da parte di altre espressioni dell’Unione, governi e istituzioni dei paesi membri, opinione pubblica in genere.
I libri bianchi, per la funzione che adempiono, sono articolati in proposte, presumibilmente innovative, anche provocatorie, visto che sono destinate a tramutarsi in scelte e opzioni di natura politica che, in quanto tali, dovrebbero scontare non solo consensi ma opposizione. Ci sono stati, nei 66 anni delle istituzioni, libri bianchi rivoluzionari, che hanno fatto la storia dell’Europa contemporanea, scatenando entusiasmi, dibattiti accesi, scontri epocali.
Difficile che ciò accada con l’insipido documento firmato da Juncker, nonostante sia stato annunciato, nei giorni precedenti all’uscita, da battage con relativa suspense sui contenuti, degne di miglior causa.
Si comincia dalla copertina, che annuncia “riflessioni e scenari” per l’Unione al 2025. Detto così, uno immagina che ci sia dentro la risolutiva strategia di lungo periodo e che vi si descriva il percorso che, da qui a ben otto anni, conduca in qualche dove.
Quando ben altro tipo di presidente di Commissione, l’indimenticabile Jacques Delors, pubblicava un libro bianco, assegnava alle istituzioni dell’allora Comunità e agli stati membri, compiti precisi da fare a casa, con la data di consegna, e guai a chi sgarrava! Cercare qualcosa del genere nel documento Juncker è fatica sprecata. Si ritrova, in testa, la consueta retorica delle grandi occasioni con le parole d’ordine sul “sogno d’Europa”, sulla “fierezza” delle realizzazioni sul bisogno di “determinare il cammino”, ma quando si vanno a cercare le misure suggerite per uscire dal presente languore, poco o nulla soccorre.
Certo che noi europei dobbiamo essere fieri di ciò che è stato fatto nei 66 anni trascorsi dalla fondazione della prima Comunità, quella del Carbone e Acciaio (Ceca), il 18 aprile 1951, a Parigi. Abbiamo eliminato ogni forma di guerra e conflitto sul territorio dei paesi membri e su quello dei paesi che via via si sono aggiunti all’iniziale famiglia dei Sei. Il continente si è ripreso dalle due folli guerre civili della prima metà del Novecento, ha edificato una società democratica e laica che non ha pari al mondo; evitando sinora derive autoritarie e discriminatorie, forme di ricchezza e redistribuzione del reddito troppo ingiuste almeno nel confronto con quanto si vede in tanti altri paesi; garantendo un livello di welfare e solidarietà sociale anche questi senza pari; distribuendo aiuti ai paesi più poveri come nessun altro.
Ma non è questa la narrazione che ci si attende dal presidente della Commissione, bensì l’elenco delle misure forti, necessarie all’uscita dalla crisi politica, morale e socio-economica che attanaglia le istituzioni unionali e troppi degli stati membri, e che da qui a qualche mese, con elezioni francesi e tedesche alle porte che possono risultare in terremoto politico, potrebbe stravolgere le certezze del vecchio continente, già minacciate ad est dal ritorno della minaccia russa.
Fa bene Juncker a mettere in testa alle sue venti paginette, la celebre frase che Jean-Baptiste Nicolas Robert Schuman, uno dei padri dell’Europa contemporanea, pronunciò, in qualità di ministro degli esteri francese, il 9 maggio 1950, affermando il progetto dell’Europa unita e sovranazionale. E siamo tutti convinti che l’Europa “non si farà in un colpo solo”. In Italia don Sturzo, altro grande europeista, diceva le stesse cose: “Gli Stati Uniti d’Europa … un ideale a lungo termine, con gradini diversi e diverse difficoltà …”.
Ma quella gente il suo passetto lo faceva, e imponeva all’agenda politica cose concrete, ben sapendo quale virulenta offensiva si sarebbe manifestata, da parte di autoritarismi e nazionalismi, a fronte della loro eventuale inazione. Difatti, nel proseguire della citazione da Schuman, si afferma che l’Europa “si farà attraverso realizzazioni concrete, creando innanzitutto una solidarietà di fatto”.
Ed è qui che casca Juncker, visto che il suo libro bianco manca di indicazioni concrete e di solidarietà. Neppure fosse il professorino di statistica o l’opinionista di turno, il presidente della Commissione propone l’elenco dei successi europei, fa qualche paragone con quanto accaduto e accade in altre aree strategiche del mondo, azzarda qualche previsione per i prossimi decenni, quindi riassume lo stato dell’arte sulla situazione socio-economica e sul livello di consenso dei cittadini alle istituzioni comuni.
Per dire: non una parola sulla terribile situazione della Grecia, o sui grandi interrogativi che Brexit ha aperto per il Regno Unito innanzitutto ma anche per l’Ue.
Il lussemburghese conclude, esponendo i cinque scenari che stanno dinnanzi alle istituzioni: continuità, il mercato interno e solo quello, cooperazioni rafforzate consentite per chi vuole avanzare verso la Federazione, fare meno cose ma farle meglio, fare molto di più tutti insieme. Benché degli scenari il presidente descriva correttamente i rispettivi impatti sulla vita di istituzioni e paesi membri, non una indicazione di preferenza, non un auspicio o un’opzione traspaiono dal testo. La Commissione viene trasformata in una sorta di segreteria degli stati membri, ai quali mette a disposizione ipotesi di lavoro sulle quali essi decideranno.
Non è questo, o almeno non solo questo, il ruolo che i padri fondatori delle istituzioni comuni, e gli stessi trattati di Lisbona, affidano alla Commissione, organo sovranazionale dell’Unione. Il potere di proposta e di iniziativa che le appartiene viene tradito da Juncker, a favore dell’atteggiamento defilato di chi preferisce il quieto vivere temendo la voce grossa di alcuni stati membri.
Non si può che concordare con il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici, quando afferma che all’Unione “serve un sussulto politico per lottare per una Ue più democratica e più efficace, anche a livello economico”.
Si può, a questo proposito, avanzare un’ipotesi. Juncker è presidente di Commissione, in quanto espressione del Partito popolare europeo, i democristiani che hanno vinto le ultime elezioni e che detengono la maggioranza al Parlamento Europeo. Potrebbe, la sua, essere la posizione imposta dal partito, timoroso che le vicine elezioni in Olanda, Francia e Germania, penalizzino le forze centriste in favore dei movimenti nazional-populisti. Possibile, ma non è detto che la tattica paghi, anche perché, attendendo che in autunno il ciclo elettorale si concluda (ma resterebbe sempre da capire dove andrà politicamente l’Italia), si saranno nel frattempo consumate altre crisi interne e internazionali senza che un’autorevole voce tuteli gli interessi del vecchio continente.
L’ipotesi è rafforzata dalla posizione di consenso espressa dal capogruppo popolare, il tedesco Manfred Weber: “Il Libro Bianco sarà una buona base per le discussioni in seno al Parlamento Europeo e con i capi di stato e di governo. Dovrebbero assumersi le proprie responsabilità e, infine, essere chiari su quale tipo di Europa vogliono”. E, in parallelo, dall’opposizione del gruppo socialista e democratico, espressa dal capogruppo Gianni Pittella, socialista italiano: “E’ un errore limitarsi a presentare cinque possibili scenari per il futuro dell’Ue invece di presentare un piano completo per essere più forti di fronte alla tempesta che dobbiamo affrontare”. Di conseguenza il fermo appello lanciato dal socialista: “Invito Juncker a sfidare le divisioni e l’inazione dei governi definendo una scelta politica chiara per il futuro dell’Europa”.
Si può anche speculare su quale sia, tra i vari scenari quello preferito dalla Commissione Juncker. Probabilmente ha ragione Lorenzo Robustelli quando, da Bruxelles, scrive che al Berlaymont si opterebbe volentieri per il mix tra il terzo e il quarto scenario, ovvero tra: cooperazioni rafforzate consentite per chi vuole avanzare, fare meno cose ma farle meglio. Ma tra gli effetti, scelte del genere comporterebbero che le istituzioni unionali retrocederebbero da molte azioni intraprese, e non è detto che questo risulterebbe pagante per l’insieme del progetto e per il benessere dei cittadini degli stati membri. Commenta il fondatore dell’agenzia EU News: “Cosa significa, ritirarsi da temi come la protezione dei consumatori? La tutela dell’ambiente e della salute? Juncker e i suoi avrebbero dovuto specificare su cosa, per il bene dei suoi cittadini, delle sue imprese, del suo futuro, l’Ue dovrebbe lasciare spazio agli stati. Così, accennando in maniera generica, si alimenta solo la confusione. Manca, in questo documento, l’esercizio della volontà politica dell’Unione.”.
Guardiamo ora ai prossimi mesi. E’ lo stesso libro bianco a riassumere le scadenze in calendario: dal vertice di Roma del 25 marzo con la Dichiarazione che il primo ministro Gentiloni si affatica a definire “politica” e che probabilmente consisterà in un lungo elenco di giaculatorie laiche senza mordente, ai molti documenti di riflessione che la Commissione è impegnata a produrre entro l’anno (su temi come sociale, globalizzazione, unione economica e monetaria, difesa, finanze), al G7 di Taormina del 26 maggio, al vertice sociale di novembre a Götemborg in Svezia.
A settembre Juncker avrà di nuovo il proscenio, presentando il discorso sullo Stato dell’Unione. A quell’epoca avrà in mano il risultato delle elezioni di Olanda e Francia, forse Italia. Toccherà quindi al Consiglio Europeo di metà dicembre: e auguriamoci che la sedia tedesca sia ancora occupata da Frau Angela Merkel.
Spiace prevedere che almeno sino al vertice di fine anno, si muoverà ben poco a livello delle istituzioni. A tranquillizzare chi ha lottato per ben altra Europa, non soccorrono le patetiche parole del primo ministro maltese, il laburista Joseph Muscat, presidente semestrale del Consiglio dei ministri, in visita ni giorni scorsi a Roma in vista delle celebrazioni del 25. Espressa approvazione per il documento Juncker ha osservato “che ci deve essere un coordinamento” delle politiche per rilanciare la “dimensione sociale che forse è stata dimenticata per molti anni” (notare il “forse” sulla bocca di un laburista! poi ci si lamenta dell’avanzare dei nazional-populismi!). L’incontro del 25 marzo sarebbe, per Muscat, “l’occasione per dire quale delle 5 vie” di Juncker “vogliamo seguire, o di indicarne una sesta”. Per carità ci mancherebbe solo questo: sesto, cari governanti europei non commettere atti impuri contro i trattati!