Chi nega la pena di morte, e vi si oppone, nega e si oppone ad una dismisura. Ad una ùbris. Nega che un uomo possa, legalmente, uccidere un altro uomo. Nella pena capitale la misura invalicabile, il limite, è la vita, tutt’intera: ed è più facile cogliere la ùbris che la sorregge. Ma questo non implica che, dove la misura muti, e sia non la vita, ma una parte di essa, il limite della pena venga meno; che pene, letteralmente “fuori di sè”, pur non recando la morte, non siano possibili.
Un criterio sicuro per riconoscere una pena “fuori di sè” è il suo carattere “esemplare”. Sempre, una pena invocata come “esempio” è smisurata: perchè piega la colpa di uno all’ammonimento di molti. Ma non all’ammonimento legittimo, che viene dalla generica notizia di una pena: ma a quello costituito dallo spettacolo di una sanzione terribile, di un castigo che intimorisca, che opprima col suo solo affacciarsi.
La Procura della Repubblica di Roma, nel processo “Mafia Capitale”, giovedì ha rassegnato le sue conclusioni; ha chiesto condanne e pene 28 anni di reclusione, 26 anni e 3 mesi, 21 anni, 19 anni e 6 mesi e così via: per chi è accusato del reato associativo, non ne sono state chieste sotto i 16 anni. Il loro carattere “rivendicativo” è stato rilanciato, fra gli altri, da un noto giornalista di Repubblica, Carlo Bonini: “ le pene… ci dicono che questo è stato ed è un processo per mafia. Con le sue richieste la procura ha ribadito che non c’era niente da ridere in quelle chiacchiere al bar, ma anzi, che c’era molto di cui preoccuparsi”.
Fra i destinatari di queste richieste vi sono alcuni “incensurati” che, soci di una Cooperativa di Salvatore Buzzi (26 anni e 3 mesi), uno dei più noti imputati, avrebbero preso parte a quello che, in seno ad una Mafia Capitale, il Procuratore Paolo Ielo ha consegnato alle cronache come “il karaoke della corruzione”. Immagini forti si inseguono, nonostante grottesche evoluzioni metaforiche: cariche di suggestioni, di richiami, di spettri. Il Cratere di Capaci. I Palazzi di Via D’Amelio. Le Chiese sventrate di Roma, i Georgofili, Via Palestro, sono il nucleo emotivo che in questi venticinque anni ha fondato e alimentato una metamorfosi. Cosa Nostra, La Mafia, soggetto storico, è diventata Le Mafie, soggetto mitico: che meno uccide, più esiste.
Secondo una certa opinione, i processi c.d. politico-mafiosi, passati e presenti, costituirebbero una vicenda giudiziaria diroccata, conclusa nella sconfitta. Opinione frettolosa. Diroccati sono stati gli imputati di quei processi, le loro vite: gli assolti, perchè assolti dopo estenuanti processi-tortura; i condannati, perchè condannati fra grumi di sentenze in contrasto le une con le altre. Ma il metodo che li ha istituiti, gli Apparati che vi si sono autolegittimati, il “Doppio Binario Antimafia”, il lessico, la Propaganda, possono a buon diritto proclamare il loro trionfo: costituiscono la struttura fondamentale di un Ritorno Inquisitorio che, semmai, ha appena cominciato a sormontare per l’intera Penisola.
Ogni “Esempio”, infatti, serve e segue un “modello educativo”.
Il dott. Piercamillo Davigo, con la consueta risolutezza, ha illustrato le epigrafi della Nuova Ortodossia: “oggi c’è “sinergia fra criminalità mafiosa e corruzione dei pubblici funzionari”. Nel 2012 (“Processo all’italiana”, Laterza, 2012) aveva sostenuto che secondo la Corte dei Conti, “…la corruzione costa all’erario 60 miliardi di euro l’anno”; nel 2017, invece, ha negato recisamente “...la cifra di 60 miliardi di euro l’anno…” e censurato quanti attribuiscono “…tale valutazione alla Corte dei conti, istituto che non ha mai azzardato tale ipotesi”. (“Il sistema della corruzione”, Laterza, 2017). Ma si può dire e disdire: perchè non importa descrivere razionalmente, ma suscitare emotivamente. Il Corrotto e il Nuovo Mafioso, affiancati, stanno avanzando: e basta.
Ne è suscitata un’aspettativa ansimante, da crollo imminente: c’è una società irreversibilmente malata, che non può più attendere. Così, in una simmetria funesta e nichilista, ancora Davigo può raffigurare lo sgomento, la paura, che prepara e nutre una rabbia cieca; che si volge intorno, e pretende un Male Colpevole. Un paio di giorni fa, agli studenti di giurisprudenza dell’Università di Bologna, ha detto: “…Se sapete le lingue, l’alternativa è andare a studiare all’estero ed emigrare. Mi rendo conto di dire una cosa disperata, ma questa è la situazione”.
La disperazione, una volta scorta da un pulpito, si traduce in istituti culturalmente giuridico-ecclesiali, che veicolano un affidamento pieno a chi, sapiente, può indicare una direttrice politica: l’Emergenza Assoluta.
Quando, come l’Alto Magistrato ha scandito al giovane uditorio, “….l’intera classe dirigente si protegge con norme a sé favorevoli”, ed è, perciò, “gentaglia”, ad una società acefala e malata non resta che emendarsi con l’autoafflizione: con la sana e “purgativa” paura che il vicino debba farsi nemico del vicino. In ogni ufficio, dovunque si muova un euro, occorrono, allora, dispositivi fondati sulla delazione, (“agenti sotto copertura”), e su “un sistema di premialità” (collaborazioni di giustizia di nuovo conio).
E se da una comunità politica e sociale i figli non possono che fuggire, e il Male, dietro pretensioni numeriche e pseudorazionalistiche, è fissato in figurazioni onnicomprensive, e conformabili secondo l’estro interpretativo di Nuovi Domenicani, l’unico criterio della pena è l’arbitrio di chi sa riconoscere il Male e, solo, può estirparlo.
Perciò Bonini, con un compiacimento appena contenuto, mentre sembra quasi contemplare quelle richieste della Procura di Roma, può rilevare: “Se il Tribunale dovesse accoglierle, almeno buona parte degli imputati…uscirebbero dal carcere ultrasettantenni”. La dismisura del castigo è misura di una società peccatrice.
E la pena sulla vita, come fuoco purificatore, torna a rifulgere.