Sabato santo passato ad attendere notizie da Pyongyang e da Washington, D.C., con un dittatore sanguinario ultimo rampollo di una famiglia di despoti comunisti, Kom-Yong-un, e un presidente democraticamente eletto, Donald Trump, a guardarsi in cagnesco, pronti, dicono, al duello. L’isolazionista Trump, a tre mesi dall’insediamento, è finito, trascinato dagli eventi e dalla sua tragica emotività, dentro una crisi così grave da poter essere paragonata a quella delle rampe missilistiche di Cuba. E’ finito, sembra neppure troppo consapevolmente, in prima linea, le dita sul bottone di guerra. Indietro non può tornare.
Il mondo si fa due domande. Perché la leadership cinese, moderata e interessata a mantenere in piedi il mondo di pace e sviluppo nel quale ha creato la sua potenza, non ferma il pupazzo nord-coreano e i suoi folli programmi nucleari. Perché il sistema internazionale è incapace di costringere al tavolo della trattativa il regime che minaccia con tanta brutalità i vicini asiatici, in particolare quelli alleati di Washington.
Il fatto è che sono in tanti, di questi tempi, a voler far abbassare le penne a un’Aquila Calva che ha ripreso a volare alta e minacciosa nel cielo della politica internazionale. Certamente i russi, ma anche i cinesi, per nulla intimoriti dalle sparate retoriche di un presidente tanto strabico da non vedere il cappio finanziario con il quale Pechino può strangolarlo. Persino gli europei, contro i quali il presidente statunitense ha invocato a più riprese la fine dell’Unione Europea e predicato altri exit dopo quello britannico salutato come pagina dalla quale derivare salutari insegnamenti, non si dorrebbero se l’America rimediasse ora un salutare ceffone dalla storia!
“America First” finisce così per diventare “America Alone”, un’America testarda che non vuole ascoltare né i colleghi del Consiglio di Sicurezza ONU, né gli alleati NATO, e che dopo aver bombardato la Siria (alleato dei russi), dichiara di essere pronta a ripetersi in Nord Corea (alleato della Cina). Un quadro che potrà anche gonfiare il petto patriottico degli americani, che infatti in queste ore fanno risalire la colonnina del gradimento verso la Casa Bianca, ma che, si ammetterà, un po’ di allarme in giro, lo provoca.
Ricostruiamo alcuni avvenimenti dell’ultima settimana: assisterà per talune conclusioni.
Venerdì 7 aprile: due cacciatorpediniere della US Navy schierata nel Mediterraneo orientale, indirizzano 59 missili da crociera BGM-109, Tomahawk, contro l’aeroporto di al-Shayrat, nella parte sud orientale della città siriana di Homs. Sarebbe la rappresaglia per gli ordigni chimici che Bashar el Assad avrebbe gettato giorni prima su inermi concittadini in zona a lui avversa. Circoleranno versioni diverse sugli effetti del bombardamento statunitense, come prima sugli autori del bombardamento chimico: non mette conto richiamarle. Mette invece conto ricordare che, qualche giorno dopo, Trump, nell’intervista a Fox Business, dichiara di aver “lanciato 59 missili per colpire l’Iraq” con la presentatrice Maria Bartiromo che precisa “Per colpire la Siria”, e lui che replica “Sì, la Siria”.
Sabato 8 aprile, si apprende dal Pentagono che: “il comando del Pacifico degli Stati Uniti ha ordinato al gruppo aeronavale di portaerei Carl Vinson di mobilitarsi come misura prudenziale per mantenere disposizione e presenza nel Pacifico”. Attrezzata con F-14 Tomcat, la flotta si è spostata nel Pacifico occidentale, così da essere pronta, in caso di necessità, a martellare l’artificiere nucleare Kim- Jong-un. Il quale, impegnato a supervisionare i grandiosi festeggiamenti per i 105 anni dalla nascita di nonno Kim-Il-Sung, primo dell’esecrabile dinastia Kim, gioisce in pubblico alla prospettiva di poter finalmente a incrociare la spada nucleare con gli americani.
Un Trump altrettanto entusiasta va a Fox Business Network e racconta: “Stiamo spedendo una Armada. Molto potente.”. Specificando: “Abbiamo i sottomarini. Molto potenti. Molto più potenti della portaerei”. Tre powerful in due righe, con altrettanti accrescitivi e un comparativo di maggioranza tra mezzi di distruzione! La soddisfazione dell’esordiente nel gioco dei soldatini veri, trapela anche nell’uso che il presidente fa del termine Armada, probabilmente ignaro del destino negro che ebbe l’unica vera Grande y Felicísima armada della Storia, nel 1588, davanti alle coste britanniche.
Giovedì 13 aprile: è sganciata, dal carrello situato nella stiva di un MC-130 Combat Talon, GBU-43, Massive Ordnance Air Blast bomb (Moab), in territorio afghano, contro un bunker di comando Isis,. Sono circa dieci tonnellate di esplosivo ad alto potenziale, guidate da Gps, che esplodono istanti prima dell’impatto al suolo. L’effetto di Moab, il più grande ordigno di esplosivo non nucleare in dotazione alle forze armate statunitensi, produce onde d’urto terrificanti per le centinaia dei metri sui quali impattano. Stanno ancora contando le vittime e qualificandone il livello di comando, ma sembra che la carneficina sia ben riuscita.
Tre considerazioni.
Le azioni belliche di Trump sono coerenti con il risultato delle elezioni di novembre, pur essendosene rilevato il contrasto con le tesi isolazioniste spesso espresse dall’allora candidato repubblicano. Il presidente ha iniziato a realizzare il patto “politico” sulla grandezza americana, concluso con gli elettori. Nonostante i consensi che esprime in queste ore l’opinione pubblica statunitense, che quanto sta accadendo sia nell’interesse nazionale (e soprattutto nell’interesse del sistema internazionale), è altra questione. Solo il futuro potrà dare la risposta definitiva.
L’azione che Trump sta conducendo, ha almeno due obiettivi: uno pedagogico (l’America guerriera è di nuovo tra di voi), l’altro strategico (gettare nel gioco del nuovo ordine mondiale l’immenso potere economico e militare americano, per affermarne il primato). C’è un rischio: che progredisca un conflitto nel quale russi e americani si trovino d’improvviso faccia a faccia. Sarebbe la follia che neppure la guerra fredda volle mai prendere in considerazione e che sempre eliminò dall’ordine del giorno. Gli scritti di George Kennan sull’arte del containment, dovrebbero essere collocati sulla scrivania del presidente.
L’azione di Trump ha almeno tre difetti: manca del disegno strategico (nessuno alla Casa Bianca, ad iniziare dal presidente, mostra di sapere dove tanto attivismo militare voglia andare a parare), è unilaterale (le azioni militari avvengono fuori dal quadro legale fissato dalle Nazioni Unite e non sono coordinate con gli alleati in sedi multilaterali), può spaventare “non-nemici” come Cina e Russia, generando loro reazioni e facendo saltare il banco di quel poco di “ordine” internazionale ancora disponibile.
Preoccupa oggi il Pacifico. Washington ha abbandonato lo strumento di partenariato economico e commerciale trans-Pacifico (Tpp) creato da Obama, non ritenendolo in linea con “America First”. Ha ora offerto alla Cina, con un tweet persino saccente (“Ho spiegato al presidente della Cina che un accordo commerciale con gli Usa sarà molto migliore per loro se risolvono il problema nord coreano,”) il baratto tra accordo commerciale/monetario e mani libere verso la Corea del nord. Ma non dispone di un progetto di ordine per il Pacifico, il che rende ogni sua mossa in zona pura avventura.
Il Pacifico non è solo Cina e Usa. C’è la Russia. C’è un sud est Asean dove fermenta antiamericanismo (le Filippine sono solo la punta militante) e pullulano regimi militari, razzismo, sottosviluppo, tensioni, anche a carattere islamista.
E ancora: il nazionalismo che Trump sta sconsideratamente alimentando, può trovare in Cina (v anche questione Taiwan), Giappone (v. il ruolo della destra politica e della cultura dominante), in un’eventuale Corea unificata, protagonisti che creeranno ulteriori problemi nell’area, in particolare nel mar della Cina.
Pechino ha proposto la penisola coreana denuclearizzata e la ricerca multilaterale del progetto di sviluppo pacifico per la regione. Probabilmente al vertice del partito hanno considerato che gli americani hanno, da parecchi decenni, l’abitudine di aprire le crisi e lasciarle poi suppurare, consegnandole in eredità ai vicini (delle crisi), dato che fanno quel giochino sempre lontano da casa (degli americani). Hanno pagato gli europei per Balcani meridionali e Medio Oriente (v. terrorismo e Isis) e gli africani (v. Corno e nord mediterraneo). I cinesi giustamente vorrebbero evitare che anche l’Asia pagasse tanta sconsideratezza.
Un’ultima considerazione: Moab è costata 14,6 milioni di dollari. Inevitabile pensare che quel denaro avrebbe potuto avere ben altro uso, persino all’interno della sacrosanta guerra al terrorismo internazionale.