Victoria, figlia del defunto boss di Cosa Nostra di New York John Gotti, da tempo sfrutta il suo cognome: pubblica libri per raccontare la mafia “vista da dentro, da casa”, ed è ospite abituale di talk show e programmi di intrattenimento. Il fratello John Jr., un marcantonio che quando lo vedi pensi Darwin ha ragione a far discendere l’uomo dalla scimmia, anche lui con i suoi bravi guai con la legge, ha voluto raccontare la sua verità sul padre e la “famiglia” in un libro: Shadow of my father. Mob Daughter (“La figlia del gangster”) è stato scritto da Karen Gravano, figlia di Sammy “the Bull”, braccio destro di Gotti prima di “pentirsi”. Insomma, che i figli monetizzino editorialmente le colpe e i crimini dei padri, è usuale, negli Stati Uniti. Anche per quel che riguarda l’Italia si può citare qualche caso di libro di e sulla mafia, “vista” attraverso gli occhi di un parente di boss. Per esempio il Riina family life scritto da Salvo Riina, terzogenito dei quattro figli di Totò Riina.
Scrive anche Juan Pablo Escobar, figlio del Pablo narco-trafficante colombiano che controllava, negli anni ’90, l’80 per cento del traffico di cocaina. Una persona spietata, crudele, responsabile della morte di migliaia di persone, Escobar padre; e potentissimo, ricchissimo, con ramificate, insospettabili complicità: in Colombia e negli altri paesi americani, Stati Uniti compresi. Juan Pablo è autore di un libro: Gli ultimi segreti dei Narcos, (in Italia Newton Compton, 284 pagine, 9,90 euro). E’ la testimonianza di un figlio che non rinnega il padre: un genitore affettuoso, pieno di attenzioni, indulgente; e al tempo stesso il farabutto che sappiamo. Ecco il mio scambio di domande e risposte con Escobar.
Quando si è reso conto che suo padre era il criminale che era?
“Avevo sette anni, me lo ha detto lui stesso”.
E lei come ha reagito?
“Avevo sette anni; mio padre era buono con me e con mia sorella; e attorno a noi c’era tanta gente che lo considerava una specie di eroe. Quand’ero bambino mi sembrava di vivere in un mondo magico”.
Quando ha preso coscienza della realtà?

“Più tardi, da adolescente. Ma che potevo fare? E poi, ripeto, certamente mio padre è stato un grande criminale, ma era anche molto popolare c’era davvero tanta gente che lo considerava alla stregua di un eroe. Era un delinquente spietato e insensibile, ma con noi era un padre straordinario, che cantava canzoncine a mia sorella e giocava con me”.
E quando suo padre è stato ammazzato?
“Lo hanno poi ammazzato..?”.
Dubita?
“Chissà. Lui diceva sempre che non si sarebbe fatto catturare vivo…”.
Come sia, è morto di morte violenta…
“Indubbiamente dava fastidio”.
A chi?
“Ai tanti che lo hanno usato. Voglio essere chiaro: mio padre è responsabile al cento per cento per quello che ha fatto; al tempo stesso quello che ha fatto, faceva comodo”.
Comodo a chi?

“Agli Stati Uniti, CIA, DEA…con il narco-traffico si sono finanziate le attività anticomuniste nel centro-America, contro il regime sandinista in Nicaragua, per esempio. Sono capitoli di storia ancora tutti da scrivere”.
Suo padre è stato ucciso più di vent’anni fa. Com’è la situazione ora?
“Guardi, possono anche eliminare in un colpo solo tutti i narco-trafficanti, ci saranno sempre decine di altri pronti a prendere il loro posto. Lei vuole sapere se la situazione è cambiata dai tempi di mio padre? Se possibile credo sia peggiorata”.
Sta dicendo che la politica proibizionista è fallita?
“Non lo dico io, lo dicono i fatti”.
Come combattere il narco-traffico?
“Legalizzando le droghe. Il proibizionismo ha arricchito in maniera spaventosa i narco-trafficanti e i loro complici. A questo punto, meglio lo Stato…”.
Lei come vive oggi?
“Sono architetto, vivo in Argentina con la famiglia, faccio conferenze, scrivo…”.
E tutto il denaro di suo padre?
“Guadagnava cifre enormi, ma altrettante ne spendeva. I colombiani lo vedevano come una specie di Robin Hood. La sola Hacienda Napolés dove io sono cresciuto era una tenuta di duemila ettari, pagata oltre due milioni e mezzo di dollari…”.
Lei per molti anni ha vissuto con un’altra identità…
“Chiamarsi Escobar, dopo la morte di mio padre, era pericoloso. Tra le bande di narco-trafficanti colombiane si è combattuta una guerra che ha provocato migliaia di morti. E io ero il figlio del boss. Abbiamo lasciato la Colombia, ma non c’era un paese che ci volesse accogliere… Alla fine solo il Mozambico”.

Come mai?
“Per ragioni umanitarie, dissero. In realtà miravano ai soldi di mio padre. Ci abbiamo vissuto per un po’, ma non era proprio il caso, così siamo andati in Argentina”.
E lì vi hanno lasciato in pace?
“Non sapevano chi ero, o forse non lo volevano sapere; comunque mi sono laureato, ho avuto un figlio che è argentino; e alla fine ho deciso di recuperare la mia vera identità. Quando è morto mio padre avevo giurato che mi sarei vendicato; ma poi ho capito quasi subito che non era quella la strada, e che sarei finito come lui. Ho cominciato così a incontrare le vittime di mio padre, e chiedere loro perdono. Ne ho incontrate tante: il figlio del ministro della Giustizia Bonillo, i figli del leader del partito liberale colombiano Galàn…”.
E hanno accettato di parlarle?
“Hanno capito che sono sincero, che non mi interessa la vendetta, io non conosco narcos che siano stati felici, sono tutti o morti o finiti in galera…”.
E suo padre?
“Cosa vuole che le dica? Non sono io che lo posso giudicare. Mi voleva bene, e al tempo stesso era un feroce assassino”.
Non ha paura di vendette, ritorsioni?
“Ormai non ci penso più. Sono trascorsi tanti anni, ormai ci ho fatto l’abitudine…”.