E’ nel Talmud che si può leggere: “Chi salva una vita salva il mondo intero”. Il Talmud babilonese, per l’esattezza, redatto nelle Yeshivot della Mesopotamia tra il terzo e il quinto secolo. Quella frase è citata nel trattato “Sanhedrin, 37a”. Tra il 1483 e il 1527 i Soncino, famiglia di stampatori israeliti che vivono nei dintorni di Cremona, cominciano la loro attività con un “lasciapassare” davvero singolare; nel loro primo libro stampato, infatti, si legge: “Tu costruirai l’edificio del mondo, innalzerai le corna della sapienza e produrrai libri mediante la stampa; in questo vi sono due utilità somme: l’una è che prestissimo se ne produrranno molti, fintanto che la terra sarà colma di sapere; l’altra che il loro presso non arriverà a quello dei libri scritti con la penna o con lo stilo e chi non avrà sostanze sufficienti per acquisti costosi li comprerà a vil prezzo e al posto dell’oro darà l’argento”.
Per tornare alla frase del Talmud, i Soncino la inseriscono nel contesto che segue: “Per questa ragione l’uomo fu creato solo, per insegnarti che chiunque distrugge una singola anima di Israele, la Scrittura gli imputa come se avesse distrutto un mondo intero; e chiunque preserva una singola anima di Israele, la Scrittura gli scrive come se avesse preservato un mondo intero”.
Di Talmud, dei Soncino, di mondi perduti o salvati, Therese Nyirabayovu, non sa proprio nulla; gliela si può anche raccontare la storia (le storie) della stesura di questo testo, cominciata con Rav, e terminata con Ravina II; potete anche provare a dirle che si distingue dal Talmud di Gerusalemme, quello redatto tra Tiberiade e Cesarea. Lei, Therese non ha alcun bisogno di conoscere questi sacri testi: la sua parte di mondo l’ha salvata senza calcolo, senza pensarci troppo; l’ha fatto perché così sentiva, e basta.
Siamo in Ruanda, paese dell’Africa nera. Colonia prima tedesca, poi belga. Grande quanto la Sicilia, poco più di undici milioni di abitanti (ma vai a sapere, come se ci fossero uffici d’anagrafe attendibili…); nel 1962 diventa indipendente: dall’oppressione dei paesi nord europei, passa a quella di corrotti e famelici “locali”. Ricco di stagno e tungsteno, si vive con poco o nulla; che nulla o pochissimo viene lasciato ai suoi abitanti. Due le principali etnie: gli hutu (84 per cento circa); i tutsi (15 per cento circa), i pigmei (1 per cento circa).
Nell’aprile del 1994 gli hutu scatenano una spaventosa caccia all’uomo, vittime i tutsi e gli hutu moderati. In poco più di tre mesi, oltre 800mila i morti. In questo contesto, Therese.
Lei è una donna esile e anziana. E’ di etnia hutu. Sono tutsi braccati, quelli che le vengono a implorare aiuto. Lei di Talmud sa nulla; sa però che in tutto il paese sono cominciati sistematici massacri; sa che ad aiutare quei poveretti che hanno appena bussato alla sua porta, rischia di fare la loro stessa fine; ma le fanno davvero compassione, e poi gli occhi di quei bambini, le espressioni dolenti delle loro madri, lo sguardo smarrito dei vecchi… Certo che li aiuta che li nasconde: “Andate là, dietro la casa, in mezzo a quei mattoni di terra ancora da cuocere, che devono servire ampliare l’edificio…”. Sono sessantamila mattoni, impilati in bell’ordine; ma “dentro” sono come labirintiche catacombe, ci si può nascondere: “Fate silenzio, non fiatate, mi raccomando, le milizie vengono a fare le loro periodiche perquisizioni spostano qualche mattone a caso, ma se non fate rumore andrà tutto bene…”.
Le milizie sono soldataglia senza arte né parte. A loro interessa bere, ingozzarsi con tutto il cibo che trovano, arraffare denaro, oggetti preziosi; le loro perquisizioni sono sempre molto sommarie; prendono quello che possono e che ha un qualche valore, se ne vanno. Non sempre le cose filano lisce: “Avevo sei figli”, racconta Therese. “Me ne hanno portati via quattro, non li rivisti mai più…”.
E i rifugiati? Prima sei, poi altri dieci; parenti dei primi. E dopo altri ancora. In tutto trentuno, cinque bambini: “Che potevo fare, li cacciavo via?”.
I figli di Therese la mattina vanno al mercato per comperare farina di mais: “Facevamo una zuppa, a volte c’erano anche patate dolci. Da mangiare lo portavamo la notte, quando era più difficile vedere che cosa facevamo. Non si dormiva quasi mai, la notte, per paura di essere scoperti. Si passava il tempo a leggere la Bibbia”. Quando le milizie catturano qualche ricercato, se ha fortuna lo uccidono a colpi di rivoltella o kalashnikov; spesso lo smembrano a colpi di machete. L’inferno comincia il 7 aprile, finisce il 1 luglio, quando, finalmente a Kigali arrivano le truppe del Fronte patriottico ruandese, l’esercito ruandese. In quei cento giorni almeno un decimo della popolazione ruandese è morta ammazzata.
In “African rights” si può leggere la storia di Therese, e di altre come lei: mentre intorno a loro si combatteva una ferocissima lotta tra faide, loro salvavano i singoli, e così hanno salvato il mondo.
Finita la stagione dei massacri, Therese finalmente ha potuto ristrutturare la sua villetta, proprio con quei mattoni che sono stati il rifugio per trentun persone. “Prego ancora Dio tutte le sere, ogni tanto ricevo la visita delle persone che ho ospitato, mi ringraziano. Va bene così”.