Si è svolta oggi al Palazzo del Quirinale, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la celebrazione del “Giorno della Memoria”. Nel corso della manifestazione, condotta dall’attore Luigi Diberti, la pianista Monica Ferracuti ha eseguito brani musicali di Felix Mendelssohn tratti dai “Lieder ohne Worte”. Sono intervenuti il Presidente della Società Dante Alighieri, Andrea Riccardi, la Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Noemi Di Segni, e la Ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Valeria Fedeli.
Qui di seguito il discorso pronunciato dal Presidente Mattarella
Signora ministro, autorità, amici deportati, rappresentanti della comunità ebraica, cari ragazzi.
Il Giorno della Memoria ci ricorda la liberazione di Auschwitz, il più grande campo di sterminio costruito dai nazisti, nel quale furono uccise milioni di persone: ebrei, innanzitutto, ma anche dissidenti politici, zingari – come si diceva -, omosessuali, disabili mentali, prigionieri di guerra, testimoni di Geova e altre categorie perseguitate dal regime hitleriano.
I pochi sopravvissuti di quel campo non erano in condizione di vivere con gioia il giorno della liberazione. L’orrore, i patimenti fisici e morali, la paura, la fame, erano stati troppo grandi.
Ricordava così Elie Wiesel, trasferito da Auschwitz a Buchenwald, il momento dell’arrivo delle truppe americane: «Il nostro primo gesto di uomini liberi fu quello di gettarci sulle vettovaglie. Non pensavamo che a quello, né ai parenti, né alla vendetta: soltanto al pane».
Non era per nulla facile riprendere la vita di tutti i giorni, dopo essere stati trattati come oggetti di nessun valore, dopo aver vissuto, giorno dopo giorno, con la morte accanto.
Alcuni sopravvissuti scelsero, comprensibilmente, di rimanere in silenzio, altri di raccontare. Per tutti, il ricordo di quello che avevano subìto ha rappresentato un peso immane.
Anche per questo dobbiamo esprimere la nostra riconoscenza, profonda e convinta, per quei reduci dei campi di sterminio che ancora oggi ci raccontano e ci tramandano l’indicibile sofferenza patita. Le loro storie e le loro parole ci colpiscono e ci chiamano, in maniera esigente, all’impegno e alla vigilanza.
Nel Giorno della Memoria ricordiamo anche i 650.000 militari italiani deportati nei campi tedeschi, perché dopo l’8 settembre si rifiutarono di servire Hitler. E’ una pagina di storia, colma di sofferenza e di coraggio, che è parte integrante della Resistenza italiana e che non sempre è adeguatamente conosciuta.
Auschwitz è assurto a simbolo del complesso e meticoloso sistema di annientamento posto in essere dalla ferocia nazista. Un meccanismo mostruoso e impressionante di distruzione e di morte, organizzato, con lugubre accuratezza, su scala continentale, con il coinvolgimento attivo, o con la connivenza, di migliaia e migliaia di persone, dislocate anche a grande distanza dai campi.
Del delirante progetto di sterminio, Auschwitz, e la rete di campi omologhi, disseminati nell’Europa centro-orientale, furono – come sappiamo – soltanto il prodotto ultimo, il più estremo e mostruoso.
Non vanno infatti dimenticate le esecuzioni sommarie di più di un milione di uomini, donne e bambini ebrei, compiute durante l’avanzata dell’esercito nazista in Europa. I camion della morte, le morti per fame, freddo e a causa dei maltrattamenti, verificatesi nei ghetti durante gli anni del III Reich.
Alla costruzione di Auschwitz non si arrivò per caso. Esso fu il frutto perverso – ma del tutto coerente – di teorie razziste e dell’antisemitismo.
Questi fenomeni erano già tristemente presenti nella storia d’Europa: ma mai, prima dell’avvento di Hitler al potere, avevano assunto dimensioni così vaste e drammatiche.
Mai sulla base dell’odio per gli ebrei – fenomeno inspiegabile e mostruoso – era stato costruito un sistema ideologico, pseudo-scientifico, politico, giuridico, propagandistico e, infine, repressivo.
Mai teorie così nefande erano state sorrette da un consenso popolare spesso maggioritario e dalla compiacenza di intellettuali, con rare ed eroiche eccezioni.
Scrisse a questo proposito Hannah Arendt: «Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma colui per il quale la distinzione tra realtà e finzione, tra vero e falso non esiste più».
È una lezione terribile che richiama oggi e sempre le nostre coscienze.
Nella Germania nazista e nei regimi suoi alleati, parole ingannatrici e intrise di odio, promesse mendaci di gloria e potenza, crearono un’inedita mentalità diffusa, che annullava ogni confine tra umanità e barbarie.
Le camere a gas furono l’estrema conseguenza di questo processo metodico che mirava a esaltare la supremazia degli ariani e a definire una gerarchia di razze umane, al fondo della quale erano collocati gli ebrei.
Se un cittadino, soltanto perché di sangue ebreo, poteva essere privato di ogni diritto, espropriato di tutti i suoi beni, allontanato dalle scuole e dagli uffici, additato come essere inferiore, deportato, il passo successivo sarebbe stato, come inevitabilmente fu, quello della sua eliminazione fisica.
Erano buoni cittadini, ben integrati nella vita culturale, sociale e politica del loro Paese. Avevano tanti amici non ebrei. Di colpo, furono scaraventati nel baratro nella morte civile. E di lì alla morte fisica il passo fu davvero breve.
Ha fatto bene Luigi Diberti – che ringrazio per la sua intensa partecipazione – a ricordare come la cieca e determinata furia nazista si rivolgesse persino contro i protagonisti della vita culturale tedesca del passato.
Ai nazisti non bastava sterminare tutti gli ebrei d’Europa. Ma doveva essere estirpata dalla storia della Germania e dell’Europa ogni loro presenza, ogni loro traccia, ogni loro simbolo. I già progettati “Musei della razza estinta” dovevano nascere nelle città, una volta che camere a gas e crematori avessero esaurito il loro lugubre compito.
In quei terribili anni, in cui la storia d’Europa e dell’umanità conobbe una regressione senza precedenti, si avverava la fosca profezia di Heinrich Heine, citata da Primo Levi in una pubblicazione sui campi: “Dove si bruciano i libri – scrisse il poeta tedesco – prima o poi si finisce per bruciare anche gli uomini”.
La memoria di Auschwitz, e di tutto quello che Auschwitz rappresenta e contiene, ci pone ogni volta di fronte al lato più oscuro dell’uomo, all’abisso del male, all’offuscamento delle coscienze e alla perdita totale del sentimento più elementare di pietà e di umanità.
Nel buio più fitto risaltano ancor di più le azioni luminose di coloro che, rischiando la vita, hanno contribuito a salvare ebrei e perseguitati.
Rammentare e onorare – come è bene fare – i tanti giusti, le tante azioni eroiche, come ci ha appena ricordato il professor Riccardi, non cancella, tuttavia, le colpe di chi, anche in Italia, si fece complice dei carnefici per paura, fanatismo o interesse.
Pensare, oggi: «Io non c’ero, non ero ancora nato», non può rendere estraneo al dovere di rispondere alla domanda posta da un fardello così opprimente; non libera la storia presente da una domanda così stringente e carica di angoscia: come fu possibile che nel cuore dell’Europa cristiana, l’Europa culla di civiltà, nella quale erano nati i diritti della persona, i principi di libertà, eguaglianza, fraternità, si infiltrasse un cancro tanto micidiale e distruttivo?
Perché alcuni popoli, che avevano da poco e con grande sacrificio, conquistato l’indipendenza, la libertà e la democrazia, si consegnarono a forze tenebrose, tiranniche e assassine?
Cosa poté oscurare le menti, serrare i cuori, cancellare – tracciandovi sopra una svastica – progressi, conquiste e valori secolari?
Le risposte sono, e sono state, tante; aiutano la nostra comprensione del fenomeno: ma nessuna, credo, possa riuscire a sciogliere pienamente interrogativi così inquietanti.
La realtà dei campi di sterminio va oltre l’umana comprensione e oltre i limiti delle possibilità di espressione.
Intellettuali, filosofi, storici, artisti hanno dibattuto a lungo sulla reale impossibilità di descrivere pienamente il sistema Auschwitz: “il silenzio di Dio”, evocato da Wiesel, “l’esilio della parola”, di cui parla André Neher, non possono costituire però un ostacolo al nostro diritto e al nostro dovere di conoscere, indagare, studiare, riflettere. E prevenire.
Nulla deve fermare la nostra volontà di ricordare, anche se ci provoca tuttora orrore e dolore.
E, ancora oggi, dobbiamo chiederci: com’è possibile che, sotto forme diverse – che vanno dal negazionismo, alla xenofobia, all’antisionismo, a razzismi vecchi e nuovi, al suprematismo, al nazionalismo esasperato, al fanatismo religioso – ancora oggi si sparga e si propaghi il germe dell’intolleranza, della discriminazione e della violenza?
La giornata della Memoria, allora, non ci impone soltanto di ricordare, doverosamente, le tante vittime innocenti di una stagione lugubre e nefasta. Ma impegna a contrastare, oggi, ogni seme e ogni accenno di derive che ne provochino l’oblio o addirittura ne facciano temere la ripetizione.
Auschwitz, oggi, è diventato un monumento contro l’orrore nazista. Ma è, e deve essere, anche la testimonianza, presente e consapevole, di quali sciagure sia capace di compiere l’uomo quando abbandona la strada della convivenza e della solidarietà e imbocca la strada dell’odio.