Quando la terra trema diventiamo tutti uguali, livellati dalla paura e dall’impotenza. La notte scorsa mi sono svegliata col letto che si muoveva e le pareti che scricchiolavano. A un abruzzese ci vuole poco per riconoscerlo: il terremoto. La prima lunghissima scossa mi ha dato il tempo di capire che non era un sogno, scrollarmi dal sonno, mettermi a sedere sul letto, realizzare che la casa si muoveva, alzarmi, correre alla porta e aprirla, per poi bloccarmi sulla soglia quando l’ondulazione si è finalmente interrotta. Tornata in camera ho acceso il telefono: 3.36. Erano le 3.32 quel 6 aprile di sette anni fa, quando la mia terra fu devastata e non fu più la stessa.
Poi le voci della gente in strada, le telefonate e i messaggi degli amici e dei parenti dall’Italia. Alle 4.33 un’altra scossa, ancora più potente seppure più breve, e le telefonate e i messaggi, ora dagli States. E il chiedersi, come quella notte del 6 aprile, dove sarà l’epicentro, quanti danni avrà fatto, quali vite avrà spezzato, stavolta.
I minuti e le ore passano, i giornalisti accorrono, i politici solidarizzano. Stamattina il conto dei morti, i titoloni sui giornali, le foto e i video, le storie strappalacrime e quelle di solidarietà. Le raccolte fondi e quelle del sangue, le campagne sui social, gli hashtag. Il paese che si stringe intorno ad Amatrice, Arquata del Tronto, Pescara del Tronto, Accumoli, Spelonga, luoghi che, come sempre in Italia, oltre a vite umane, hanno finora custodito tesori artistici e paesaggistici. Ora sotto la polvere.
Le paure della notte col giorno trovano nomi e volti. Ricordo il giorno dopo il terremoto dell’Aquila: la decisione di andare sul campo, non come giornalista, ma come volontaria e abruzzese. Ricordo la sensazione di entrare nella vallata che fa da ingresso al capoluogo e di trovare i primi dolorosi segni della devastazione. “Entrare a Onna è entrare in uno scenario di guerra. Restano in piedi soltanto gli alberi”, scrivevo su Facebook cercando di raccontare l’irraccontabile oltre la retorica giornalistica.
I giorni a seguire furono tra i più duri della mia vita. Non per la fatica di montare tende o servire pasti nelle mense, ma per la fatica di essere abruzzese e giornalista, ché uno giornalista non smette di esserlo solo perché mette via la tessera e indossa il giubbetto del volontario. Ho visto il peggio della mia professione, in quei giorni. E come il giornalismo, anche la politica e il mondo imprenditoriale hanno dato il peggio di sé, fin dalle prime ore, come abbiamo poi tristemente scoperto. Ma in quelle stesse prime ore tutti accorrevano, tutti piangevano, tutti si stringevano, tutti in cerca di redenzione o di opportunità. Era il momento dei buoni propositi, delle buone intenzioni, delle belle parole. “Cos’è il Gran Sasso o l’Armageddon?”, chiedevo su Facebook.
Presto venne la burocrazia, la protezione civile, il progetto C.A.S.E., le visite di Berlusconi con telecamere a seguito, il G8, gli scandali e l’assuefazione, l’indifferenza e una stampa che all’Aquila non mette piede da anni.
No, quando la terra trema non diventiamo tutti uguali. Quando la terra trema ci sono quelli che restano sotto le macerie e quelli che su quelle macerie mangiano e brindano. Quando la terra trema c’è chi trema con lei e chi si rimbocca le maniche e si lecca i baffi. Quando la terra trema c’è chi si sente vulnerabile nella propria umanità e chi l’umanità se la dimentica, in cerca di un’umanità spettacolo. Un paese che impara dai propri errori oggi dovrebbe ricordarsi quel 6 aprile 2009 e tutto quello che a quella data è seguito. L’orologio non deve restare fermo alle 3.32. Il terremoto dell’Aquila non è stato solo un sisma di magnitudo momento 6.3, è stato un terremoto umano, politico, sociale, che in un momento di crisi è riuscito a mostrare il peggio di noi. Agli amici del Reatino auguro che dalle loro parti l’umanità non si perda domani e che il tempo ricominci presto a scorrere sui loro orologi.