L’omicidio di Sara Di Pietrantonio, 22 anni, uccisa a Roma per strangolamento dall’ex fidanzato, Vincenzo Paduano, 27, reo confesso, e il cui cadavere è stato poi dato alle fiamme, ha suscitato turbamento e dolore diffusi, come spesso, ma non sempre, accade a ridosso di quella che un tempo si chiamava cronaca nera. La giovane età della vittima, il furente infierire sulle spoglie esanimi, l’apparente ritorno dell’omicida alla normalità del lavoro, quale segno estremo della sua spietatezza, hanno concorso ad alimentare un comune sentimento di partecipata e afflitta riprovazione. Ma, su gli altri, un elemento è apparso subito prevalere, quasi ad assorbire ogni altra ragione di stigma e di condanna: l’essere, la vittima, una donna. E si capisce che così debba essere: perchè sempre la violenza ripugna, ma di più quando essa si approfitta di un’incolpevole disparità, di una debolezza che favorisce la sopraffazione. Lo stessa collera, e forse maggiore, sorge, o dovrebbe, quando si colpisce un bambino. Prima le donne e i bambini, infatti, si diceva, di fronte ad un pericolo imminente, in un mondo cavalleresco, forse mai esistito in termini compiuti, ma certo nemmeno frutto esclusivo di fantasie nostalgiche.
Pare invece che, oggi, questa corale coscienza non abbia alcun posto, né largo né stretto, nella legge penale italiana. Pare che manchi una parola, perchè questa superiore sensibilità riceva il suo giusto riconoscimento. La parola che mancherebbe è: femminicidio. Ed anzi, a ben vedere, la parola non manca, se pure qui la si può scrivere: quello che mancherebbe è il reato, la previsione di una fattispecie, o modello, che preveda e punisca con speciale severità l’omicidio di una donna.
Si deve precisare che il difetto riguarderebbe proprio l’omicidio, poichè altre norme già prevedono speciali aggravanti, per casi di violenza contro una donna che però non conducano alla morte.
E’, nel migliore dei casi, una proposizione assai disattenta: tanto più speciosa, quanto più si alimenta del turbamento e della commozione per una sofferenza specifica e autentica, com’è quella dei familiari di Sara, o di ogni altra donna colpita e sopraffatta.
In primo luogo, era ed è già presente nel Codice Penale una circostanza aggravante che contempla proprio la disparità di forze e, in genere, di condizioni, fra vittima e carnefice: è la c.d. minorata difesa, per cui chiunque, nel commettere un qualsiasi delitto (quindi anche l’omicidio), approfitta di un qualsivoglia stato di inferiorità della persona offesa, commette un delitto aggravato da questo approfittamento; in secondo luogo, uccidere “una donna in quanto donna” è, esattamente, uccidere per un “motivo abietto”, cioè tale da ripugnare alla comune coscienza di una comunità, ed è un’altra aggravante; infine, se il fatto è commesso dal padre contro la figlia, dal figlio contro la madre, dal marito contro la moglie, è pure prevista una terza aggravante, specificamente per l’omicidio. Tutto già nel nostro Codice. In tutti i casi appena richiamati, se il giudice non si sottrae alle sue responsabilità (e se ci sono le prove), la pena è quella massima: l’Ergastolo.
Nè si può sostenere che quanto già previsto non colga lo specifico di un reato subito da una donna, e che, pertanto, eventuali nuove norme, definendo un muscoloso orientamento culturale, fosse anche solo per questo, sarebbero giustificate.
Anche da tale punto di vista, non manca proprio un bel niente: le circostanze indicate, infatti, già si prestano a descrivere nitidamente ciascuna un aspetto dell’aggressione alla “donna in quanto donna”: proprio perché rendono più grave il delitto commesso approfittando di una minore capacità di resistenza, o abusando di un ruolo familiare, o esprimendo “quella” motivazione, particolarmente spregevole: tutti profili specificamente attinenti alla condizione femminile; cioè si aggrava giuridicamente mentre si qualifica culturalmente. Allora perché si continua a recitare sul dolore?
Per manutenere la “visibilità”, tanto preziosa nel lancio o rilancio di ruoli, ambizioni, seggi, cattedre, “battaglie”, tutto all’insegna del disinteresse, dell’impegno a perdere, neanche a dirlo.
In queste stesse ore, per es., l’Avv. Giulia Bongiorno, già deputato di Alleanza nazionale, ha dichiarato: “Sempre ergastolo”.
Di fronte a simili fermenti dichiarativi, verrebbe da dire: il sonno del Processo Penale genera mostri; oppure: se il Processo Penale non esiste, allora tutto è permesso; oppure ancora: il Processo Penale è morto, e noi lo abbiamo ucciso. Peraltro, se pure un noto Avvocato pare avere, sia pure saltuariamente, un rapporto così poco interrogativo e sofferto con la pena dell’ergastolo, il “noi” rischia di essere pertinente per più categorie di quanto sarebbe desiderabile. Sebbene, non vadano sottaciuti quanti, pur nella costante desertificazione delle regole, delle prassi e dei ruoli processuali, si spendano con ogni energia, per condurre, di passo in passo, il proprio cammino difensivo, silenzioso e civile. Così quel “noi” c’è, ma non è ancora un “tutti noi”.
Quale, dunque, il fondamento di questa idea, del “reato mancante”? Si chiama cinismo. Ma è anche un atteggiamento, un movimento del pensiero che, per così dire, si fa espressione di un metodo: del modo in cui si costruisce oggi la c.d. pubblica opinione. Si tratta di un template, diciamo: un modellino operativo, già piuttosto rodato.
Prima si comincia il battage nelle università e sui media, dove subito occhieggia l’ultimo ritrovato per apparire à la page, trendy,: una sorta di must psico-sociale, il “Top del mese”, quello che non può mancare nel vostro guardaroba etico. Celebrata questa fiera gratuitamente xenofila, più o meno simultaneamente, si conferisce indispensabile utilità al prodotto, passando a spericolate filologie autoctone: ed ecco il c.d. femminicidio. Il quale non è, come è, una formula ardita per suscitare la pubblica riflessione; o anche un visionario spunto per approfondire un fenomeno; o, infine, epigrafe apodittica di un possibile e fecondo confronto. No, no: è la Via, la Verità, senza della quale il mondo verrà avviluppato da una coltre di opprimente regresso. A una tale operazione di consolidamento concorrono le immancabili statistiche, sondaggi, polls e vario altro materiale tossico-mediatico. Fatto questo, non resta molto altro da aggiungere: perché si è già alterato il pensiero, si è spostata la riflessione dal campo del razionale a quello del sacro, dalla parola all’icona, dalla persuasione all’ingiunzione. Si è posto un nuovo dogma: non esistono argomenti contrari, solo Forze Oscure Della Reazione In Agguato.
Ora, se fosse solo vaniloquio scomunicante, uno potrebbe fare spallucce. Ma non è solo questo. Non è solo piegare e umiliare la norma giuridica al basso rango di manifesto, di tazebao, di leggìo da pulpito. Non è solo abdicare al senso più profondo della parola pubblica, responsabile, saggia, onesta ed equilibrata. E’ peggio.
E’ coprire, depistare, fiancheggiare. Quanti omicidi, recenti e non recenti, sono stati preceduti da denunce rimaste ignorate, da invocazioni rimaste neglette, da solitudini cinte da ottusità burocratico-giudiziaria, e irrise da indifferente macchinosità garantita in busta-paga?
Chi volesse, può dare un’occhiata a quanto si faceva notare circa tre anni fa, su un caso analogo accaduto a Palermo: quello di Rosy Bonanno, 26 anni. Può anzi essere che il tempo trascorso, meglio si presti ad illustrare, fuori della fibrillazione interessata del fatto recente, se, in simili casi, manca “il giusto reato”, o invece qualcos’altro.
Il diritto penale, in una società ordinata, è chirurgia d’urgenza, solo chirurgia d’urgenza; non è pane, non è sapere, non è cultura, non è sensibilità, non è progresso: è uno scannatoio, a volte ritenuto indispensabile, cui bisognerebbe ricorrere sapendo quello che realmente è: una parentesi primitiva pubblica, autorizzata da parentesi primitive private.
Rimanendo tuttavia assai dubbio se una simile corrispondenza non degradi lo Stato, sintesi della comunità dei consociati, più di quanto lo munisca e lo tuteli.