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May 8, 2016
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Varricchio a New York spinge le nuove idee dell’Italia per l’America

L'incontro al Consolato con i giornalisti del nuovo ambasciatore italiano a Washington

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
armando-varricchio

A destra l'Ambasciatore Armando Varricchio, durante la conferenza stampa al consolato di New York, con accanto il console generale Francesco Genuardi

Time: 7 mins read

Il nuovo ambasciatore italiano a Washington, Armando Varricchio, era questa settimana a New York per incontrare chi si deve conoscere nella città che non dorme mai. “Ho visto il sindaco Bill de Blasio, bellissima e calorosa accoglienza. Non ho ancora visto il governatore Andrew Cuomo, ci sarà presto l’occasione”. Colui che, dopo esser stato ambasciatore a Belgrado ed essere diventato il consigliere diplomatico di Palazzo Chigi e che infine il premier Matteo Renzi ha voluto a Washington, da ambasciatore d’Italia a New York c’era già stato poche settimane fa. “Mentre accompagnavo il presidente Matteo Renzi, durante le sue recenti visite“, dice ai giornalisti in un incontro con la stampa organizzato nella sede consolare di Park Avenue dal console generale Francesco Genuardi. Per la verità Varricchio, fresco di nomina,  aveva circa due mesi fa già morso la Grande Mela anche per ricevere un premio dal GEI, il Gruppo esponenti italiani, dispensatore di onorificenze per tutti i “prominenti” made in Italy, di passaggio o stabili in America, ma con poltrone pesanti, pubbliche o private, dell’establishment italiano.

Per noi di VNY, mercoledì al Consolato, era la prima volta con Mr. Ambassador Varricchio (Al GEI non c’eravamo. Ma siamo della strana razza di giornalisti che fanno domande, magari non ci invitano per questo…). Al Consolato Varricchio, nato e cresciuto in Veneto (Venezia-Vicenza), lo abbiamo trovato come ce lo aspettavamo: diplomatico preparato e affabile, quindi prevedibile. E ci mancherebbe! Un ambasciatore non porta pena né dovrebbe combinare guai:  ai giornalisti e al pubblico solo quello che è indispensabile e senza lasciarsi scappare una virgola in più. Varricchio non è mica Vento (lo ricordate?) che con la chiacchiera portava tempesta; o Terzi, che per statura non era secondo a nessuno fino a quando finì per “fracassare” la carriera sui Marò e quel Monti che lo aveva fatto ministro degli Esteri.

“In tutti i miei incontri alla Casa Bianca, ho visto una grandissima attenzione verso l’Italia. In questo momento siamo considerati come un Paese portatore di idee nuove”, dice Varricchio ai corrispondenti da New York.

Idee nuove? Eccome, per esempio sulla Libia. Varricchio ci dice che gli americani sono su tutto d’accordo con l’Italia, ovviamente tralasciando di ricordare quando l’ambasciatore americano a Roma John Phillips, neanche tanto tempo fa, rilasciava interviste ai giornali in cui esortava l’Italia a schierare subito cinquemila soldati anti ISIS a Tripoli… America’, ma sei impazzito? Avrebbe praticamente risposto Renzi a Obama, nel deserto trappola della Libia i soldati ce li mettete voi. Mica scemo Matteo, e via con l’armiamoci e partite!

“Con la Casa Bianca piena condivisione della strategia da seguire – ci dice invece Varricchio – una piena sintonia sul fatto che la sicurezza in Libia passa innanzitutto attraverso un processo di consolidamento politico. Sostegno al governo di unità, vuol dire anche non dar tregua al terrorismo”.  Quindi l’amministrazione Obama sostiene “in pieno la nostra strategia di appoggio delle istituzioni libiche. Perché la Libia va messa a posto dai libici” ripete Varricchio. Certo, se no

L'ambasciatore Armando Varricchio con il presidente Barack Obama il giorno della presentazione delle credenziali diplomatiche (Ph. White House/ Lawrence Jackson)
L’ambasciatore Armando Varricchio con il presidente Barack Obama il giorno della presentazione delle credenziali diplomatiche
(Ph. White House/ Lawrence Jackson)

n tornano a scannarsi tra loro, per ora l’Italia è riuscita a scansare la spedizione dei cinquemila, che sai come inizia e non come finisce. Se il traballante governo libico di Fayez al-Sarraj, messo in piedi dall’ONU (leggi Italia) ce la fa grazie anche ai “servizi” che gli abbiamo messo a disposizione, ben vengano le “idee nuove”. Se non ce la fa, si tornerà alle “vecchie idee” degli americani? Attenzione, tutto questo pensiero ovviamente Varricchio, che Vento non è, non lo farà mai in conferenza stampa, anche se lui sa che noi sappiamo che lui sa. A lui basta dire che con gli yankee in Libia tutto ok.

Varricchio, ad un certo punto della conferenza stampa, passa al caso Giulio Regeni, e le ormai scottanti relazioni con l’Egitto a causa del ricercatore italiano torturato e ucciso. Nelle cosiddette “indagini”, il governo al Cairo ha praticamente preso in giro Roma con continui depistaggi. “L’Egitto deve fare di più per togliersi questa macchia”, ha commentato l’ambasciatore inoltrandosi in un argomento che pensavamo non competesse al diplomatico italiano a Washington, almeno pubblicamente. E invece… Spiega infatti che da parte degli Stati Uniti c’è “interesse, disponibilità e partecipazione sia per la solidità del rapporto Usa-Italia sia perché il caso ha creato apprensione. Mi sono sentito dire ‘quel ragazzo poteva essere mio figlio'”. Al Dipartimento di Stato come alla Casa Bianca, ha proseguito l’ambasciatore, “non sfugge l’importanza dell’Egitto nella Regione” e quindi nei rapporti con l’Italia, che possono ostacolare operazioni come appunto quelle  in Libia. Già, come la nostra domanda che avevamo fatto al ministro degli Esteri Paolo Gentiloni al Council on Foreign Relations, ricordate? Ma invece lì Gentiloni aveva risposto che “non ci vedeva nessun link”, insomma la Libia è una cosa, il caso Regeni un altra. Ma si vede che qualcuno a Roma deve aver pensato che per sbloccare qualcosa al Cairo, bisognava far intromettere la Casa Bianca, di cui il regime militare di Al Sisi, a conti fatti, deve il suo potere. E gli americani si immischiano? A quanto ci dice Varricchio, per la Casa Bianca quel ragazzo “poteva essere figlio” loro e quindi “non è considerata una semplice questione bilaterale…”. Della serie, come avrebbe detto Alberto Sordi, “Americà, a facce Tarzan e fai paura agli egiziani!”.

Dunque, per Varricchio l’America apprezza molto l’Italia  “per quello che sta facendo” nei dossier più importanti su scala internazionale, dalla Libia all’Iraq e Afghanistan (siamo con i carabinieri “i migliori addestratori di forze di polizia militari…”). Il ruolo dell’Italia è riconosciuto molto in Iraq, e non solo per nel suo ruolo nella protezione della diga a Mosul. Per Varricchio l’Italia si distingue in Iraq in tre modi: “L’addestramento fornito dai nostri Carabinieri, la presenza dei nostri operatori per l’evacuazione di feriti e il ruolo per la rimessa in sicurezza”.

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Il nuovo ambasciatore Varricchio incontra la comunità italiana al Consolato di New York il 3 maggio

E quindi ecco che l’Italia si presenterebbe al vertice NATO che si terrà a Varsavia a luglio, con un curriculum adatto per l’occasione. Sul tavolo dell’alleanza, infatti,  “ci sarà il riequilibrio dell’onere”, ha detto l’ambasciatore, ricordando l’impegno assunto dai membri della NATO a investire nella Difesa il 2% del Pil. Ma, questo il pensiero di Varricchio,  l’impegno dell’Italia si può “pesare”  ben al di là dei numeri, che da soli darebbero solo una “visione riduttiva”.

Questa Italia, ricorda Varricchio, si candida alle elezioni di giugno per un seggio non permanente al Consiglio di Sicurezza ONU (deve battere Olanda o Svezia candidate con lei ai due seggi “spettanti” all’Europa). A questa Italia, la considerazione che gli americani hanno per “le sue nuove idee”, potrebbe tornare utile anche in queste elezioni all’ONU (Varricchio questo non lo dice, ma lo deduciamo noi dal suo discorso).

Varricchio ci tiene a dire che alla Casa Bianca sono preoccupati per l’Europa e il progresso del progetto europeo, che continua invece a frenare messo sotto pressione dal referendum  Brexit così come la crisi degli immigrati. Sembra che a Obama un’Europa meno unita faccia paura pr ragioni geopolitiche, ma anche e forse sopratutto per interessi economici: infatti che ne sarebbe del trattato TTPI? Questa connessione Varricchio non la fa in conferenza stampa così, questo lo scriviamo noi. Lui però dice che sul fronte della TTIP, non è affatto stupito che il tema faccia ampiamente parte della campagna per le presidenziali americane e che se ne parli anche di più in Europa: “E’ salutare, perché è finita l’epoca in cui questi accordi venivano negoziati a porte chiuse”. Certo è che “la stagione degli accordi multilaterali non è finita”.

Quindi gli americani guarderebbero all’Italia come portatrice di idee nuove, per rilanciare la politica di integrazione europea che, dice Varricchio “subisce pressioni di disintegrazione”. Perché a Washington, continua l’ambasciatore, “ogni volta che si parla di Italia sullo sfondo c’è sempre l’Europa”. Comunque l’umore non sarebbe pessimista, anzi i dati economici appena usciti dicono che il Continente torna a crescere, dati che farebbero sperare gli americani che, grazie anche “alle nuove idee italiane”, tutto si aggiusta.

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L’ambasciatore d’Italia Armando Varricchio accolto a City Hall dal sindaco di New York Bill de Blasio

Nuove idee, frase che torna spesso nel discorso di Varricchio, soprattutto quando tiene a ricordare il recente accordo siglato tra Google e Fiat Chrysler Automobiles sulle vetture che si guidano da sole: “Che sia FCA a guardare al futuro ci rende fieri. Dimostra che il progetto industriale nato con FCA non è di un mantenimento di una vecchia realtà, ma getta le basi per guardare al futuro”.

Alle domande dei giornalisti, le cui risposte sono state riassunte sopra, Varricchio se la cava piuttosto bene. Risponde dicendo solo quello che voleva e poteva dire. Alla nostra domanda, invece, risponde così così. Noi avevamo chiesto all’ambasciatore d’Italia se fosse preoccupato dopo aver visto Hillary Clinton, durante un dibattito politico per le primarie in diretta televisiva, rispondere ad un giornalista che la incalzava per rivelare i nomi dei leader europei, dopo una sua dichiarazione in cui sosteneva “che i leader dall’Europa la chiamavano per esprimerle preoccupazioni su Trump”. All’inizio Hillary sembrava non voler far nomi, ma alla fine di nomi ne ha fatto uno solo: “Matteo Renzi”. Ora, una cosa è quando Renzi lo dice ai giornali italiani, che gli americani che votano Trump non leggeranno mai. E una cosa quando Hillary lo dice in diretta tv in prime time tv negli USA. Avevamo chiesto all’ambasciatore, a parte il fatto che Clinton avrebbe potuto anche astenersi dal rispondere o, almeno, rivelarli tutti quei nomi, “diplomaticamente” non la fa preoccupare questa “rivelazione” in tv usando solo il nome di Renzi? Perché se alla Casa Bianca ci dovesse finire Hillary Clinton, allora tutto di guadagnato. Ma se dovesse vincere Trump? E’ preoccupato?

Qui Varricchio, che aveva già detto ai giornalisti quanto avvincente fosse per tutti seguire queste storiche elezioni americane, ha tirato fuori una riposta che non ci convince. “Non c’è alcuna preoccupazione sull’esito delle presidenziali americane, che sia Donald Trump o Hillary Clinton: chiunque andrà alla Casa Bianca il rapporto tra i due Paesi resterà stabile, solido e profondo”. Ok, fin qui potrebbe anche andare. Risposta sentita tante volte. Ma quando poi ci ricorda lo stretto rapporto personale tra il premier Matteo Renzi e l’ex segretario di stato americano Hillary Clinton, spiegando che “i rapporti personali ormai contano tantissimo”, ecco qui Varricchio non ci ha convinto affatto. Noi riteniamo che Hillary, se fosse stata così “amica” di Renzi, quel nome non l’avrebbe dovuto pronunciare in diretta tv, o almeno non da solo.  Perché se Donald Trump, ormai nominato dal Gop, vincesse la Casa Bianca (o dobbiamo escluderlo a priori?) quel siluro di Hillary non farà certo bene all’Italia.

Abbiamo fatto poi un’altra domanda, un po’ scontata, su quanto aiuto si aspetta dagli italoamericani a Washington. Varricchio ha ricordato l’accoglienza calorosa che ha ricevuto al Congresso dal Caucus dei legislatori italoamericani dove Nancy Pelosi resta un punto di riferimento.

Conferenza stampa chiusa. Con i giornalisti si parla di una futura cena con l’ambasciatore, magari a Washington, per conoscersi meglio. A Varricchio noi de La Voce ricordiamo che non si è parlato della lingua italiana in America, tema cui gli ultimi due precedenti ambasciatori tenevano molto. Lui guarda il console Genuardi, come per dire “già, ne avremmo dovuto parlare”. E ci dice quanto anche per lui il tema è importante. Se ne parlerà la prossima volta.

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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e dirigo La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018.

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