Questa mattina, seduta in un vagone della subway diretta Uptown, c’era una ragazza evidentemente appena scesa dal letto e intenta a ricostruirsi la faccia con un intero beauty case di trucchi appoggiato sulle ginocchia. Davanti a lei un’altra donna, più adulta e più consapevole della presenza di altre persone, cercava di non sporcarsi il cappotto con la crema di cioccolato che sgocciolava a ogni morso di croissant. Seduto in fondo alla carrozza, un giovane dormiva con le gambe allungate nei jeans stretti e tagliati sulle ginocchia, abbracciato nella felpa dal cappuccio tirato sul capo, tanto da non lasciare intravedere nemmeno il colore della pelle. Lo osservavano incuriositi due turisti europei, con le borse a tracolla e le guide della città, una in mano a ciascuno.
In mezzo al vagone, un ciclista appoggiato statuariamente a un palo con la sua bicicletta, guardava la muraglia umana allineata al limite della linea gialla disegnata sulla banchina della stazione Trentatreesima, dove il convoglio era appena entrato azionando la fase di arresto, pronto all’assalto dei passeggeri arrivati con i treni Amtrak da ogni parte del Tristate (NY, NJ e CT), destinazione Penn Station, per iniziare così la loro giornata di lavoro.
Ogni giorno, a Manhattan, oltre 4.6 milioni di persone transitano sulla rete metropolitana, dove ogni tanto si vede qualche poliziotto appostato in un angolo della stazione, magari all’incrocio tra uscita ed entrata, dove la gente scende correndo o sale a fatica le scale che portano ad altri treni o spingono per le strade.
Nel 2014, 48.8 milioni di turisti hanno visitato la metropoli.
Il Metropolitan Museum riscontra una media di sei milioni di visitatori all’anno.
Amalia Piccinini, 41 anni, pittrice marchigiana di ombre e di luci, molto apprezzata in America, vive e dipinge a Brooklyn.
“Certo che temo un altro attentato in questa città, penso sia inevitabile. Ci sarà un’altra carneficina d’innocenti, in un giorno qualsiasi e con tutta probabilità in metropolitana”, mi dice un tardo pomeriggio durante l’esibizione di gioielli in Soho di un’altra amica, Giuliana Michelotti, che a Manhattan ci vive da oltre vent’anni ma che solo ora sta facendo le pratiche per avere la carta verde, perché, con quello che sta succedendo nella politica italiana, dice di sentirsi più al sicuro a New York.
Per Amalia non è così. Dice pure di essersi accorta di particolari strani, come quegli uomini travestiti da donna, difficile farci caso perché si è sempre di fretta, tranne per le persone come lei che, pur correndo, mantengono lo spirito di osservazione alto. “Non sono ne transgenders ne travestiti abituali. Per me sono agenti in borghese. Pattugliano sia le strade all’aperto che quelle sotterranee della città".
Quando non dipinge nel suo studio di Brooklyn, Amalia prende la subway per uscire dal quartiere con la scusa di un appuntamento di lavoro o l’inaugurazione di una mostra. “Uno cerca di non farsi prendere dal panico, ma la ferita ormai è nel subconscio. L’altro giorno, per esempio, un bel ragazzo di visibili origini arabe sale sul treno, mi chiede se è diretto a Union Square e io glielo confermo. Ma una volta arrivati alla stazione in questione, non si alza. Allora gli urlo che quella è la sua fermata e che deve scendere, immaginando che, magari, Union Square è proprio il posto che ha scelto per farsi saltare in aria”.
Anche se le persone, apparentemente indifferenti al pericolo, continuano a brulicare per le strade di Manhattan, che come una fenice è risorta dal giorno in cui il fuoco è arrivato e sceso dal cielo, la percezione del nemico invisibile c’è e si avverte nel momento in cui ci si ferma a parlarne.
Per Barry, direttore tecnico in un’azienda informatica, 55 anni, il rischio fa comunque parte di questa città, dove è un pericolo soltanto attraversare la strada, con i cinesi e i messicani che fanno le consegne a domicilio in bicicletta, totalmente indisciplinati, non rispettano né i semafori né i divieti. Per non parlare dei tassisti. Se ne stimano almeno 62000 in azione, di cui l’82% stranieri, la maggior parte dai Caraibi, il Bangladesh, l’India e il Pakistan. Guidano esattamente come farebbero a casa loro. Ogni volta che attraversi la strada, devi essere come un ragno e avere quattro occhi per far fronte al pericolo. In più, vogliamo parlare dei ciclisti (sì, ancora loro) automobilisti e passanti che si muovono nel traffico estraniati da ciò che li circonda, con la musica sparata nelle orecchie? Pericoloso è anche il terrorismo dei bianchi fondamentalisti di qualche dottrina travisata, che sparano a caso nei luoghi dove si trova chi non la pensa come loro, o che da soli cercano di vendicare la loro nazione invasa da immigrati sospetti. Pericolosi sono i ragazzini cresciuti nella non cultura di oggi, vittime di una società dove non riescono a entrare, indifferenti a tutti, colpiscono e uccidono a caso i membri della stessa comunità che da loro il permesso di possedere delle armi per difendersi.
Barry non sente il pericolo del terrorismo islamico in casa come un fatto imminente, ma riconosce che ormai, dal punto di vista internazionale, non si può più tornare indietro. “E’ una guerra in aumento progressivo, legata a un’idea subdola di religione. Ci attaccano con il loro non valore della vita, dove è la morte a venire esaltata. Ed è chiaro che, di queste metastasi di matrice terroristica esplosa nel mondo, ne è responsabile anche l’Occidente con le sue politiche dettate puramente dagli interessi e a scapito del rispetto per gli altri essere umani. Siamo nemici di noi stessi. Non mi piace Trump, non lo voterei mai, ma una cosa giusta l’ha detta: era meglio quando c’era Saddam Hussein. L’America, ora, non deve più farli entrare”.
Guillaume, grafico francese di 47 anni e amico fraterno da oltre due decadi, sta per prendere l’aereo per Parigi, dove festeggerà in parte le vacanze di Natale. Lui, l’11 settembre, l’ha passato sul tetto di una casa nell’East Village a guardare le due torri accasciarsi tra fuoco e polvere, con la speranza che l’amico in comune Loui, imprenditore arrivato dalla Giordania, fosse riuscito a scendere dal trentunesimo piano, dove la sua compagnia aveva gli uffici. Ce l’ha fatta, Loui, e ora si è trasferito in Arizona.
“Non ho paura”, dice Guillaume dai suoi due metri d’altezza, mentre si passa le dita tra i capelli biondo veneziano, “penso che la situazione, ora come ora, sia più difficile in Europa. E’ vero, qui hanno già colpito più volte e sono riusciti a sorprendere tutti. Ma penso ci saranno sempre meno possibilità che dall’altra parte dell’oceano, dove la posizione geografica favorisce le migrazioni dall’Africa e dove, apparentemente, non ci sono tutti i controlli che fanno qui in America per farti entrare nel loro paese”.
La subway Guillame non la prende quasi mai, solo quando le condizioni climatiche sono talmente estreme da non permetterlo, allora deve rinunciare alla comodità delle Citi Bike, parcheggiate in ogni angolo della città. “Comunque,” continua Guillaume sicuro, “è vero che quando entro in un grande negozio o magari decido di andare al museo, il pensiero che qualcosa in mezzo a tutta quella confusione di gente, possa capitare, c’è eccome”.
Nihal, di origine Indiana, saltella dietro il banco tra i pacchetti di sigarette, gli accendini e le macchine per giocare la lotteria, sotto lo sguardo annoiato di un gatto grigio che, ogni volta che la porta si apre, cerca di uscire. Sua cliente abituale è una vecchina ingobbita – la testa coperta dallo stesso cappello sia d’inverno che d’estate – continua a sfregare un gratta e vinci e si arrabbia quando Nihal non capisce i numeri che lei gli chiede. Stanno tutti all’interno dell’iconico negozio di tabaccheria Village Cigars, all’angolo tra la Settima Avenue e Christopher Street. Ogni volta che provo a giocare, chiedo a Nihal un numero fortunato e gli prometto che, in caso di vincita, sarà ricompensato. Lui, con fare un po’ sardonico risponde “va bene, va bene”, tipico di chi vivendo a New York da tanto, forse troppo tempo, se ne è già sentite dire di ogni genere. E’ convinto che ormai New York sia uno dei posti più sicuri. La maggior parte dei mussulmani che ci vivono è qui per lavorare, per cogliere le possibilità che questa città può dare. Chiaramente non siamo tutti uguali. “Le cinque dita della stessa mano sono una diversa dall'altra”, esclama allargando bene il palmo nel farmelo vedere. “L’Occidente non deve intromettersi nella guerra tra sciiti e sunniti. E’ una faccenda privata, non finirà mai e purtroppo ha rafforzato il gruppo militante sunnita dell’ISIS. Ma qui non è come in Europa”.
Il giorno dopo gli attentati a Parigi, mi ritrovo al Caffè Cornelia, bistro situato in una stradina fatta di ristoranti, nel West Village. Il locale è pieno, ma Kristina, 58 anni, proprietaria di un delizioso negozio vintage dove proietta solo commedie degli anni ’50 e ’60, arrivata dalla Polonia decadi addietro, conosce bene il proprietario e trovare un tavolo, non è impresa difficile.
“Sono sicura che la Polonia chiuderà le frontiere. Io non sono d’accordo, ma ci scommetterei che stanno pensando a fare questo”, afferma di fronte al primo calice di vino, arrivato a concludere la giornata. “E’ inevitabile, ogni volta che si sale in un aereo, pensare che, anche lì, potrebbe capitare ciò a cui stiamo assistendo. Ma la mia vita deve andare avanti lo stesso, e non per non darla vinta a loro, ma per me stessa”.
Guardo intorno la sala pranzo, dove il vociare dei clienti è talmente alto da non lasciar filtrare la musica che cerca di uscire dagli autoparlanti. A un tavolo stanno per sedersi quattro amici omosessuali. Devono essere arrivati in ritardo. Con un sorriso, si scusano con l’hostess del locale. Ci sono i genitori che festeggiano la figlia unica, adolescente, che guarda la candelina bruciare sulla fetta di torta e ride con timidezza quando i camerieri e i clienti ai tavoli vicini al loro, intonano happy birthday.
Ci sono i due ragazzi che s’incontrano per la prima volta, probabilmente dopo essersi conosciuti su internet. Lo si capisce da come si osservano senza voler strafare…
Poi li vedo entrare, all’improvviso, estranei muniti di armi d’assalto. Gridano che il loro Allah è grande e incominciano a sparare, senza nemmeno guardare a chi hanno deciso di togliere la vita. Provo a immaginare gli ultimi istanti di chi finisce, tristemente, in un atto criminale che farà storia e mi rendo conto di quanto tutto questo sia assurdo.
* Renata Bovara, scrittrice milanese, vive a New York dal 1995. È di quest'anno il suo ultimo romanzo Il grido del falco (Elison Publishing), preceduto da La notte prima (2006 Il Filo Edizioni). Oltre a romanzi, scrive sceneggiature per il cinema.
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