Dopo la strage di Capaci rimasi profondamente scioccato, incredulo, deluso poiché non riuscivo a comprendere come lo Stato avesse potuto abbandonare un uomo come Giovanni Falcone. Il 19 luglio del 1992 smisi in maniera consapevole di credere in questo Stato che non aveva saputo difendere due uomini che lottavano la mafia a viso scoperto come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Poi, poco tempo dopo le stragi, ebbi la grande fortuna di conoscere Antonino Caponnetto che mi confermò fatti che rese pubblici subito dopo la strage di via D’Amelio. Mi disse che Borsellino negli ultimi giorni prima della sua morte ebbe la certezza che il tritolo per lui era già arrivato a Palermo. Per prima cosa si attaccò al telefono, chiamò il suo confessore. Disse: "puoi farmi la cortesia di venire subito?" E appena quello lo raggiunse nel suo studio, disse: "senti, per cortesia, confessami e impartiscimi la comunione".
Caponnetto sostenne sempre, e lo fece anche con me, che quella strage poteva essere evitata perché Paolo Borsellino aveva chiesto già venti giorni prima alla questura di disporre la rimozione degli autoveicoli dalla zona antistante l’abitazione della madre. Caponnetto di questo fatto non è mai riuscito a farsene una ragione. Gli domandai ma come mai lo Stato in cui Borsellino credeva ciecamente non lo ha protetto? Abbassando lo sguardo, mi rispose testuali parole: “Spero di riuscire a saperlo prima di morire”.
Oggi la storia si ripete. Il tritolo per Nino Di Matteo è giunto a Palermo. A dare conferma di quanto visto e sentito, sono le dichiarazioni dell’ex boss, Francesco Chiarello il quale afferma che l’esplosivo "si trova già a Palermo e che è stato trasferito in un nascondiglio sicuro". Ma la conferma non arriva soltanto dal Chiarello. Sempre l’anno scorso, infatti, anche il collaboratore di giustizia, Carmelo D’Amico, parlò di centocinquanta chili di esplosivo, senza indicarne la sistemazione, perché sostenne che l’unico a sapere dove fosse nascosto, sarebbe Vincenzo Graziano e cioè colui che lo acquistò.
In questa situazione mi chiedo cosa fa lo Stato? Non solo non crea le condizioni adeguate per lottare la mafia, ma nei fatti non si vede all’orizzonte nessuna volontà di reazione al fenomeno, non si avverte affatto la mobilitazione della politica nell’arginare il crimine organizzato. Come nel 1992 molti politici oggi definiscono i magistrati politicizzati, esibizionisti, egocentrici e molti di loro sono gli stessi che oggi si sciacquano la bocca con i nomi di Falcone e Borsellino e che all’epoca li attaccavano e li isolavano permettendo poi la loro morte.
Non so cosa farà lo Stato, ma so cosa farò io. Continuerò senza sosta a parlare di mafia, di corruzione, di mala politica sono convinto che servano dibattiti costruttivi per abbattere i muri del silenzio, dell’indifferenza e dell’omertà che nel loro insieme sono un arma letale nelle mani della mafia, poiché siamo di fronte ad un’organizzazione che ha ucciso come in nessun’altra parte del mondo senza mai avere una vera e propria reazione da parte dello Stato. Anzi sembra che lo stesso sia venuto ad accordi con la mafia. Si parla troppo poco, si riflette di meno, noi, invece, abbiamo l’obbligo morale di ricordare, di parlare, di conoscere, soprattutto nei confronti dei più giovani, perché le mafie non solo non sono state sconfitte ma sono molto più forti di prima e oggi fanno le leggi e siedono in Parlamento. Hanno solo cambiato volto ma l’anima resta sempre criminale, quindi: io oggi sto con Di Matteo, come ieri stavo con Falcone e Borsellino!
* Vincenzo Musacchio, giurista e docente di diritto penale, direttore della Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del Molise