Gli attori Alessandro Gassman e Gigi Proietti in questi ultimi giorni hanno sollevato il problema del degrado in cui Roma si dibatte ormai da lungo tempo. Lo hanno sollevato con una efficacia sconosciuta a deputati, senatori, politologi e ai tanti millantatori i quali popolano la vita pubblica da quando nei primi anni Novanta crollò la Prima Repubblica, rimpiazzata con sbalorditiva e sospetta rapidità dalla “repubblica” dei ruffiani e delle ruffiane, di mezzani e mezzane… dalla “repubblica” di affaristi senza scrupoli e ineducati, di politicanti gran parte dei quali fino al 1992 (l’anno del lancio di Mani Pulite) poco o nulla contavano nei loro partiti; politicanti decisi a tutto pur di raggiungere notorietà, potere, denaro, parecchio denaro, a palate, e in clima sempre più disgustosamente fastoso, sfarzoso. Che fossero di destra, di centro, di sinistra, importanza non aveva: aveva appunto importanza la conquista di un potere sempre più robusto, sempre più “proficuo”.
Con l’iniziativa moral-sociale-di senso pratico “Romasonoio”, appoggiata senza esitazioni da Gigi Proietti, Alessandro Gassman un certo scossone a Roma lo ha portato. Scossone tuttavia insufficiente, fatalmente, insufficiente, almeno in una città come questa, in un Paese come questo. Il comunicativo, disinvolto, impeccabile Gassman non è segretario nazionale d’un partito… Non è capogruppo alla Camera. Non dirige consigli d’amministrazione i quali determinano le condizioni di vita (sempre peggiori) di milioni e milioni di cittadini; non è un grande industriale. Come avrebbe potuto osservare Stalin, “non dispone di divisioni corazzate”…

Alessandro Gassman
Ma è un coraggioso. E’ uno che non si rassegna. E’ un signore, signore vero e quindi appartenente a una “specie” in via d’estinzione. Da gran signore è ‘anche’ un ingenuo, poiché solo un ingenuo, a Roma, in Italia, può avvertire il bisogno d’andare a fare a spallate con un muro di granito. Già i ‘maestri di politica ’, i ‘timonieri’, i ‘capo-cordata’ della Casta, nei loro cenacoli noti o meno noti, si fanno beffe, appunto, dell’”ingenuo”, del bello, dell’aitante dagli occhi puliti: questo lo schifo dell’Italia come essa a noi si presenta da venti o trent’anni a questa parte, Paese dominato non dal materialismo classico, ma dal materialismo gretto, volgare, arido.
Roma, sì, affonda nel degrado. Se ne occupa anche la stampa estera. Lo stato d’emergenza è d’emergenza continua. Ma in senso strettamente giudiziario, e giuridico, non se ne individuano i responsabili poiché le normative nei vari servizi municipali sono fumose, nebbiose, contraddittorie; poiché il gioco “a rimpallo” i suoi ‘campioni’ lo sanno eseguire talmente bene da snervare, da estenuare anche gli inquirenti più decisi, più preparati. Le dimensioni incommensurabili dell’immondizia che soffoca il centro di Roma, l’Ostiense, l’Esquilino, Trastevere, Monteverde, la Balduina e così via, sono come una tenia, una tenia che puoi spezzettare, ne puoi asportare anche i nove decimi, ma se la sua testa rimane intatta, la bestia si forma di nuovo. Ebbene, lasciare che la politica risolva il caso del degrado romano, è pia illusione, significa non aver capito un bel nulla di come vanno le cose a Roma e non solo a Roma. Ci vorrebbe il commissariamento a tempo indeterminato del Comune di Roma: ci vorrebbe un novello Mori, erede del Prefetto Mori che fra le due guerre mondiali fu spedito in Sicilia col compito di debellare la Mafia e se la mafia l’alto funzionario di Stato non distrusse, la cacciò comunque in un angolo da cui non poteva più nuocere a nessuno, in un angolo dal quale venne fatta uscire solo dagli americani, fra il 1943 e il 1944. Ma lo si troverebbe, oggi, in Italia, un altro Mori?
La questione, secondo noi, va affrontata in senso ancor più ampio. E’ qui che il fatto diventa antropologico. Il degrado di Roma ha inizio, un inizio lì per lì impercettibile, nei primi anni Settanta, ma destinato appunto a far registrare il proprio processo di elefantiasi. Ha inizio con la seconda calata dei “burini” a Roma, ben più vistosa, ben più grossa della prima calata, quella degli anni immediatamente successivi a Porta Pia, alla presa di Roma da parte del Regno d’Italia il 20 Settembre 1870. Ma se i “burini” della seconda metà dell’Ottocento (piemontesi, lombardi, toscani, liguri) furono assorbiti, assimilati dai romani di “sette generazioni”, ora si presenta invece il fenomeno opposto: i romani sono stati circondati, piegati, seppelliti dai ‘burini’. “Burini” si sono insediati al Comune, si sono insediati all’ACEA (la municipalizzata per l’erogazione di acqua e luce), alla Motorizzazione e in tanti altri organismi pubblici, meno in quelli privati.
Che vengano dalla Ciociaria o dalla Sabina, dall’Umbria o dalle Marche, dalla Maremma o dalla Liguria, non fa differenza: il “burino” dell’”era moderna” ha un tratto unico, un comune denominatore diffuso soprattutto fra quelli della provincia laziale, della provincia marchigiana. Il tratto è quello della persona insidiosa, inaccessibile, imperscrutabile: del tipo col pelo sul cuore, dell’opportunista che per proprio tornaconto prepara disgrazie altrui; del personaggio all’occorrenza reticente, sfuggente; all’occorrenza delatore, delatore dei più freddi, dei più implacabili.
Il comune denominatore è l’ambizione, l’ambizione sfrenata; la sete di potere, il gusto di comandare, di spadroneggiare; la voglia di umiliare, di far vivere e lavorare gli altri sulle spine, salvo elargire favori, concedere privilegi quando questo possa servire alla sua “causa”.
Nella maggior parte dei casi questo “burino” dispone di un’istruzione assai limitata: poco ci manca che sia un incolto. In anni recenti, anche in vesti di parlamentare (!) o di assessore o di consigliere comunale, si è vantato di non aver letto un solo libro in vita sua – e dileggiato nel modo a lui congeniale, quello sguaiato, quanti invece raggiungono il miglioramento personale attraverso lo studio, l’osservazione, i viaggi.
Questa è la genìa padrona di Roma. Responsabile del degrado di Roma.