Avevo quindici anni appena compiuti e un labbro leggermente contuso nel tardo pomeriggio del 23 maggio del 1992. Mi trovavo, assieme a mio padre, al commissariato di polizia di via Roma, nel centro di Palermo. Eravamo andati a denunciare una piccola rapina, che avevo subito quella stessa mattina. All’uscita dalla scuola io e Massimo, mio amico e compagno di classe, eravamo saliti, come di consueto, sull’autobus che dalla Stazione Centrale ci avrebbe portato alle nostre case. Ci eravamo accomodati agli ultimi posti in fondo al veicolo. Il mezzo era fermo al capolinea, e cominciava a riempirsi di studenti, massaie, pensionati e qualche impiegato, tutti di rientro per il pranzo, con la tranquilla prospettiva del fine settimana.
A un tratto ci si avvicinò un giovane malacarne, come si chiamano a Palermo i piccoli delinquenti di quartiere. Aveva notato i cronografi, identici, che io e il mio amico avevamo ai polsi. Si trattava di un modello non certo carissimo, ma che andava di moda tra gli adolescenti di allora: era il frutto di piccoli risparmi. Mostrando di possedere un coltellino, il ladro intimò, a me per primo, di cedergli l’orologio. Dopo un lungo e strenuo negoziato – direi oggi – glielo consegnai. Venne il turno del mio amico, il quale però, constatata la débacle della diplomazia, decise di puntare sull’uso della forza e sull’effetto sorpresa, capitalizzando le lezioni di taekwondo che regolarmente prendeva. Ne seguì una breve colluttazione, in cui il nostro aggressore ebbe, alla fine, la meglio. Riuscì quindi ad andarsene indisturbato. Nessuno dei presenti era intervenuto in nostro soccorso. "È per quelli come voi che questa città non cambierà mai!», esclamò furente il mio amico, rivolgendosi agli altri increduli passeggeri. "Ma noi pensavamo che scherzaste", abbozzò timidamente, per giustificarsi, un’anziana signora.
Quel pomeriggio io e mio padre avevamo deciso di andare a denunciare l’accaduto. "Non servirà a recuperare l’orologio, ma almeno farà statistica. E poi, denunciare è un dovere". "È per quelli come voi…", pensavo in cuor mio.
Al commissariato avevo appena finito di sfogliare, senza trovarvi il nostro aggressore, uno strano catalogo delle fotografie segnaletiche dei giovani pregiudicati palermitani, quando la radio della polizia cominciò a gracchiare convulsamente notizie sull’incredibile attentato al giudice Falcone.
Fu subito chiaro che si trattava di qualcosa di diverso dal “solito”. Nella nostra città c’era appena stato un vero e proprio atto di guerra. L’agente che stava battendo a macchina il verbale improvvisamente si arrestò. "Un attimo soltanto, per favore. Scusate". E si avvicinò alla radio per ascoltare meglio.
Qualche istante dopo tornò a occuparsi della nostra denuncia: operazione che, per tacito accordo, subì una drastica accelerata. "Di sicuro ci sono delle vittime. Ma anche questa volta, Falcone sembra essersi salvato". Il riferimento era al fallito attentato che il magistrato aveva subito tre anni prima nella sua villa all’Addaura, sulla costiera palermitana. Le prime notizie lo davano, infatti, “soltanto” per ferito.
Uscendo da quel commissariato, una stranissima sensazione si radicò in me, per non abbandonarmi mai più, come un marchio a fuoco. La città, attorno a noi, era ancora ignara, immersa nel trantran del sabato pomeriggio. Noi eravamo tra i primi a sapere, da fonte diretta, dell’accaduto. Di quella inaudita follia.
Poi, il susseguirsi spasmodico dei telegiornali, delle immagini crude e spietate, la conferma della morte di Falcone, di sua moglie, Francesca Morvillo, degli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Il giorno dopo, i titoli di apertura, in prima pagina, su tutti i quotidiani nazionali.
"È morto, è morto nella sua Palermo, è morto fra le lamiere di un’auto blindata, è morto dentro il tritolo che apre la terra, è morto insieme ai compagni che per dieci anni l’avevano tenuto in vita coi mitra in mano. È morto con sua moglie Francesca. È morto, Giovanni Falcone è morto. Ucciso dalla mafia siciliana alle 17:58 del 23 maggio del 1992. La più infame delle stragi si consuma in cento metri di autostrada che portano all’inferno. Dove mille chili di tritolo sventrano l’asfalto e scagliano in aria uomini, alberi, macchine. C’è un boato enorme, sembra un tuono, sembra un vulcano che scarica la sua rabbia", avrebbe scritto Attilio Bolzoni su Repubblica.
Di Giovanni Falcone sapevo, allora, relativamente poco: sapevo che era il campione della lotta alla mafia. Lo avevo visto in TV. Ricordavo soprattutto le sue partecipazioni ad alcuni dei più noti talk show italiani. Mio padre, allora un sottufficiale in servizio sulle motovedette della Guardia di Finanza, ci raccontava sempre un aneddoto: in un ristorante dell’isola di Ustica, a nord di Palermo, dove si trovavano per una tavolata, il Giudice Falcone chiese, e non si capiva se stesse scherzando, di farlo sedere in modo che potesse eventualmente guardare in faccia il suo assassino… Purtroppo il suo desiderio non era destinato a realizzarsi.
La mia prima sensazione fu che con la sua morte fosse davvero finita. Quelli come loroavevano prevalso. Chi credeva nello Stato e nella giustizia era stato per sempre, irrimediabilmente, sconfitto. Per avere un futuro non restava che andarsene da Palermo. E al più presto.
Animus meminisse horret, l’anima trema davvero d’orrore nel ricordare. Ma per spiegare la portata dello sbigottimento a chi non è vissuto nella Sicilia quegli anni è forse utile un minimo di contesto. Mentre scrivo, ricorre il trentaquattresimo anniversario dell’omicidio di Mario Francese, cronista del Giornale di Sicilia ucciso da Cosa Nostra il 26 gennaio del 1979, mentre rincasava.
"Le stragi di mafia sono di fatto cominciate nel ’79, proprio con l’assassinio di Mario Francese, e sono terminate nel settembre del ’93, con l’uccisione di Padre Pino Puglisi", ha commentato il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, in occasione delle commemorazioni. Per chi, come me, è nato nel 1977, questo significa essere cresciuto con una sorta di pericolosa assuefazione al martirio. Nella lotta alla mafia non vi era stata, in Sicilia e soprattutto a Palermo, categoria sociale o professionale che non avesse avuto i propri caduti: magistrati, rappresentanti delle forze dell’ordine, politici, giornalisti, imprenditori, sacerdoti, sindacalisti, medici, operai, avvocati.
Tra le cinque tipologie umane ("uomini, mezz’uomini, ominicchi, (con rispetto parlando) pigliainculo e quaquaraquà") descritte da Don Mariano, il boss mafioso del Giorno della Civetta di Sciascia, gli uomini, in Sicilia, erano davvero una moltitudine. Nel caso di Giovanni Falcone, tuttavia, l’impressione era che Don Mariano avrebbe dovuto escogitare, come minimo, una sesta categoria.
Ne ebbi una conferma vivida già lunedì mattina, il giorno dei funerali, quando mi recai, come sempre, a scuola. Nella Sezione B del Liceo Vittorio Emanuele II, ospitata in un austero edificio del ‘500, in un vicolo della vecchia Palermo in quella che era stata la sede di un collegio di Gesuiti, crescevamo in un ambiente che mi ricordava, per alcuni versi, quello del Karl Alexander Gymnasium de L’Amico Ritrovato di Uhlmann, "un tempio di studi classici, in cui scarsa importanza avevano la tecnologia e la politica", e all’interno delle cui mura "Omero e Orazio, Euripide e Virgilio contavano ancora più di tutti gli inventori e i padroni temporanei del mondo". In maniera analoga, mentre il mondo di fuori sembrava in tribolazione – e di questa tribolazione erano parte anche le crescenti contestazioni studentesche (proprio a Palermo era nato, nel 1989, il movimento universitario di protesta della cosiddetta “Pantera”) – i nostri professori, più con l’esempio che con le minacce, ci avevano inculcato che, alla nostra età, il modo più efficace ed anticonformista per cambiare la società non fosse accodarsi ai cortei, ma studiare e conoscere, per formarsi uno spirito critico e diventare cittadini maturi domani.
Massimo risultato con massimo sforzo, ci ripeteva il nostro Professore di greco Roberto Picone, ancora oggi un amico fraterno di tutti noi. Il treno del liceo non sarebbe passato più. Tradurre Tucidide ora, o forse mai più. Studiare Dante ora, o forse mai più. Capire Kant ora, o forse mai più. Messa così, suonava in fin dei conti bene. Quasi crumiri in erba, non prendevamo praticamente mai parte a tutto il campionario di manifestazioni, occupazioni e “scioperi” studenteschi in voga allora. E tutto sommato accettavamo di buon grado il titolo che ci eravamo conquistati: B come bacchettoni. Si continuava a studiare Aristotele e Boccaccio, come se niente fosse. Anche se poteva capitarti, come capitava a me, di avere come compagno di banco Lenin Mancuso, che del nonno poliziotto, ucciso dalla mafia, portava, indelebile, il nome.
Quel giorno, però, con nostro grande stupore, la professoressa di italiano e latino, Lelia Mazzola, ci annunciò serissima che lei avrebbe sospeso le lezioni, e che sarebbe andata ai funerali di Giovanni Falcone, a qualche centinaio di metri a piedi dalla nostra scuola. Ci lasciava liberi di seguirla o di restare in classe. Quando scendemmo in strada, ci ritrovammo subito immersi in un’onda di folla. Migliaia di persone s’affrettavano verso la chiesa di San Domenico, il Pantheon dei palermitani illustri.
Nella piazza della chiesa lo scenario era da brividi. La folla, tesa ed infuriata, riempiva ogni centimetro quadrato. Urlava giustizia. Il clima era di quelli che preludono a una rivolta. Dentro la basilica, in cui riuscii ad infilarmi a fatica, le grida lasciavano il posto al pianto, alla commozione e all’angoscia generale. Trovai posto in una cappella laterale. Ogni più piccolo spazio era stipato. Accanto a me una ragazza non smetteva di piangere. Il culmine si raggiunse quando Rosaria Costa, la vedova di Vito Schifani, uno dei poliziotti di scorta caduti nella strage, spezzò tra i singhiozzi la lettura che le era stata affidata, rivolgendosi direttamente ai carnefici di suo marito: «Io vi perdono…però vi dovete mettere in ginocchio!».
Tutti suonavamo all’unisono. Non era per nulla finita! Quelli come loro non avevano ancora prevalso, e quelli come noi erano in tantissimi! In ciascuno dei presenti si era innescato un meccanismo, destinato a diffondersi come un virus. Alla gente venne una insolita voglia di partecipare alla vita democratica, di pretendere giustizia, di riconquistare, metro dopo metro, una delle città più belle d’Italia.
Certo, ancora molte lacrime dovevano essere versate, a cominciare dalla strage di via D’Amelio, in cui il 19 luglio di quello stesso anno persero la vita il Giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta, e per finire con l’assassinio di padre Pino Puglisi, ucciso il 15 settembre 1993 davanti al portone di casa. Ma lo slancio popolare sembrava uscirne, ogni volta, rafforzato. Proprio a Brancaccio, dopo la morte di don Puglisi, che era anche un insegnante di religione al Vittorio, ebbe luogo una delle manifestazioni a cui partecipai anch’io. In quel quartiere periferico, dove era nato, don Pino aveva creato il Centro “Padre Nostro”, concentrandosi, tra l’altro, sul recupero degli adolescenti reclutati dalla criminalità mafiosa.
Come d’abitudine, il corteo, per lo più composto di studenti, era stato accolto in generale da persiane socchiuse: la gente del quartiere sembrava timorosa persino di affacciarsi alla finestra, e pareva ostentare indifferenza. Ma a qualche minuto dall’arrivo della piccola folla nella piazzetta del quartiere, da un balcone di un condominio prospiciente un’anonima signora compì un gesto tanto eclatante quanto inaudito, stendendo alla ringhiera un grande lenzuolo bianco (che in quel momento mi sembrò enorme).
In altre zone della città questo sarebbe stato considerato un gesto bello ma usuale, tipico dei sostenitori del cosiddetto Comitato dei lenzuoli: ostentare al proprio balcone un lenzuolo immacolato, in segno di vicinanza alle vittime della mafia. Ma in quella piazzetta, dopo un attimo di stupore generale, fu accolto da un tripudio. Il virus era penetrato anche lì! Nel giro di pochi istanti, da tanti altri balconi cominciarono a spuntare come i funghi tanti altri lenzuoli candidi.
Un altro momento indimenticabile, come molti di quegli anni. La sostanza che li racchiude tutti è che tutto cambiò col sacrificio di Giovanni Falcone.
Venne poi, per me, il tempo dell’approfondimento, a cominciare dalla lettura di Cose di Cosa Nostra, il libro-intervista in cui il magistrato palermitano raccontava gli intrecci di Cosa Nostra alla giornalista francese Marcelle Padovani. E cominciò una convivenza quasi fisica con le figure di Falcone e di Borsellino, che pure non ho mai direttamente conosciuto: era come se ovunque, in ogni momento, i due magistrati fossero discretamente presenti.
Nelle aule della Facoltà di Giurisprudenza, dove studiai dopo il liceo, e in quelle del Palazzo di Giustizia e delle “aule bunker” di Palermo, che frequentai come praticante avvocato; ogni volta che attraversavo, come ogni palermitano che torna a casa, il punto dell’esplosione di Capaci lungo l’autostrada per l’aeroporto che oggi porta il loro nome.
O nei locali della Fondazione Falcone, creata a Palermo nel dicembre del 1992 per volontà dei familiari di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo per promuovere la cultura della legalità soprattutto tra i giovani. Fondazione dalla quale nel 2001 e nel 2003 ottenni due borse di studio per svolgere ricerche nel campo della procedura penale – per me riceverle significò non soltanto un immenso onore: senza quelle borse avrei senza dubbio fatto molta più fatica a proseguire i miei studi all’estero.
Succedeva anche in circostanze inattese. Come quella volta che mi capitò di accompagnare, come volontario del servizio civile, Rita Borsellino – la sorella di Paolo – in un lungo viaggio in auto da Palermo a un paesino della provincia di Agrigento, per partecipare a un incontro con la società civile: arrivare in via D’Amelio a Palermo, e dover premere quel pulsante del citofono con su scritto “Borsellino”, è – lo posso certificare – un’esperienza marcante.
Il flusso è continuato anche quando la mia vita ha preso, almeno in apparenza, un’altra direzione, con l’ingresso nella diplomazia italiana. La presenza di Falcone e Borsellino rimane latente ma costante, specialmente quando mi accade di interrogarmi su cosa significhi, seppur in un contesto e con modalità diverse, servire quello stesso Stato per cui i due giudici sacrificarono, coscientemente, ogni cosa. È come se una voce interiore ti ripetesse di continuo: "Lo sai, no, che c`è chi fino in fondo ha compiuto il proprio dovere, senza piegarsi?". È un pensiero pesante.
Si può dunque intuire che piacere sia stato verificare quanto importante sia, anche qui negli Stati Uniti, il lascito morale di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, soprattutto tra i loro colleghi americani. E che sorpresa quando, il primo giorno di lavoro presso la nostra Ambasciata a Washington, a vent’anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, mi sono imbattuto nel Giudice Giannicola Sinisi, segretario generale della Fondazione Falcone ai tempi in cui ne ero borsista, e in una bellissima mostra fotografica sui due magistrati, allestita in una delle sale della nostra sede diplomatica.
Uno degli scatti ritrae Giovanni Falcone il 4 settembre 1982, mentre, davanti ai militari in rassegna, si avvia verso i gradini della Chiesa di San Domenico, per partecipare alle esequie del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso dalla mafia. Come per una lugubre premonizione, lo sguardo del Giudice, che appare afflitto, ma al tempo stesso determinato, è rivolto alla facciata di quella stessa basilica in cui, un giorno, si sarebbe celebrato il suo funerale.
Ad accompagnare Giovanni, però, ci sarebbero stati non soltanto militari in divisa, ma anche migliaia di cittadini risvegliati, contagiati, da allora e per sempre, da una sorta di virus buono.
(l’articolo, già pubblicato da rosalio.it, sarà pubblicato nel volume To Die For Justice: Giovanni Falcone, Italian Hero, a cura della Stony Brook State University of New York)