Accade al JFK, mentre mi accingo a salire sul Boeing della Meridiana, che mi rendo conto che è la prima volta, in 23 anni d’America, che faccio ritorno a Palermo alla fine di maggio. Già, non mi era mai accaduto così vicino alla data del 23, quando si ricorda la strage di Capaci. Nel 1992 ero da pochi mesi da graduate student a Boston e la notizia di quell’esplosione e di tutti quei morti mi sconvolse. Quello svincolo di Capaci, sull’autostrada dell’aeroporto di Palermo che allora si chiamava Punta Raisi, poi lo attraversai decine di volte, mai a maggio. Questo volta, passandolo sull’autobus che mi riporta a Palermo, mi fa un effetto più forte, la stessa fitta sentita in America. Allora ricordo il senso di rifiuto della sicilianità, e quando toccò a Borsellino, il distacco dalla Sicilia, terra di mafia, fu convinto e profondo.
Ma con gli anni americani che trascorrevano, ho poi capito quanto il sacrificio di quegli eroi per la Sicilia, diventi un motivo fondamentale per invece sentirsi fieri della propria “sicilitudine”. Giovanni Falcone, come Paolo Borsellino, era nato e cresciuto nel quartiere popolare della Kalsa. Siciliani come altri centinaia di magistrati, poliziotti, carabinieri, sindacalisti, politici e imprenditori uccisi dalla mafia. A combattere Cosa Nostra in Sicilia fino a morirne, tranne poche eccezioni (Carlo Alberto Dalla Chiesa) sono stati, da sempre, i siciliani.
Il confortevole autobus passa dalla Piazza della Statua ed entra in via della Libertà, la strada più importante di Palermo, quella che ti porta verso il centro storico. Ad ogni incrocio un ricordo. Ecco sulla sinistra il Don Bosco Ranchibile, la mia prima scuola con l’oratorio dei ricordi che ti scaldano l’anima. Via La Marmora, con quella casa dove terminerà l’infanzia iniziata a Mazara. Ed ecco che a destra spunta un primo incubo, via Pipitone Federico, dove 9 anni prima di Falcone e Borsellino, la mafia uccise il giudice Rocco Chinnici, con la stessa tecnica usata per i suoi magistrati, i suoi allievi. Ancora si commette l’errore di scrivere, persino sui libri di storia, che solo negli anni Novanta, con “l’attentatuni” di Capaci e Via d’Amelio, i corleonesi di Totò Riina passarono ai metodi da “guerra civile”. Invece i palermitani, come anche il bravissimo Pif ha ricordato nel suo bel La mafia uccide solo d’estate, ricordano bene come la Mafia le tecniche “di guerra” le ha sempre usate.
In Sicilia, la mafia ha combattuto le sue guerre ma anche quelle “per procura”. Come nel maggio 1947, a Portella Della Ginestra. Nel caso di Chinnici, in una strada centralissima, fece esplodere una autobomba che solo per miracolo non fece più morti. L’obiettivo, il giudice venuto da Castelvetrano (il paese dove sarebbe stato ucciso Salvatore Giuliano e regno di Matteo Messina Denaro), quel Chinnici che doveva saltare in aria proprio perché stava guidando il giovane Falcone nelle tecniche dell’individuazione non solo degli interessi mafiosi, ma anche degli interessi che li proteggevano.
Ancora, poco dopo, Via Pipitone Federico, ecco che a sinistra c’è il marciapiede di via Libertà dove una volta ci si sedeva ai tavolini della Pizzeria Astoria, le schiacciate più buone di Palermo. In quello stesso marciapiede, domenica 6 gennaio 1980, la mafia crivellò di colpi, davanti alla moglie e ai figli, Piersanti Mattarella, presidente della Regione e fratello di Sergio, attuale presidente della Repubblica, che tra i primi accorse per abbracciarlo prima che spirasse. Un altro delitto di mafia motivato dagli interessi “paralleli”.
Palermo è ancora bellissima, il sacco di Lima e Ciancimino l’ha sfregiata per sempre, ma lo stupore per certi angoli sopravvissuti resta intatto. Arrivo presto la mattina, e dal bus scendo all’angolo della via Notarbartolo, la strada che taglia Via Libertà proprio all’altezza in cui inizia il bellissimo “giardino inglese”. Emanuele Notarbartolo, nome importante per una strada, per ricordare il primo “cadavere eccellente” della mafia, quello del presidente del Banco di Sicilia ed ex sindaco di Palermo ammazzato nel 1893 (ovviamente delitto mafioso quindi impunito). Su quell’incrocio vedo decine di studenti che a piedi o in motorino e in vespa, vanno verso via Marchese di Villabianca, e mi rivedo, trentacinque anni fa. Ma noto quanto questa gioventù sia esotica, vedo tanti ragazzi e ragazze di origini africane, mediorientali, asiatiche, con facce sorridenti, che vanno proprio in direzione del mio Liceo Scientifico Cannizzaro o del Classico Garibaldi, dove studiarono gli amici di tutta la vita e quella ragazza dagli occhi blu normanni rimasta in un angolo del cuore. L’aula bunker, quella accanto al carcere l’Ucciardone, sta in mezzo a questi due licei, proprio continuando giù la via Notarbartolo, che si trasforma in Via Duca Della Verdura andando in direzione del mare. Via Duca della Verdura… Si dice da sempre che sia stato proprio lui il mandante dell’omicidio Notarbartolo. Quel duca che Crispi aveva imposto al Banco di Sicilia per frenare quel marchese Notarbatolo, che alla presidenza del Banco di Sicilia non voleva più coprire gli affari sporchi con gli amici degli amici. Ma chi ha deciso quella incredibile toponomastica a Palermo? Dalla via Notarbatolo, primo cadavere eccellente della mafia, si attraversa via della Libertà per continuare sulla strada del probabile mandante della sua morte. Come per dire: ma quale libertà, qui a Palermo comanda la mafia!
Scendendo giù per via Duca della Verdura si arriva in quell’aula blindata dove Falcone e Borsellino stupirono l’Italia e il mondo, fecero vedere quanto la mafia fosse veramente e soltanto un “fenomeno umano”, e che appunto potesse avere un inizio e una fine. Che bastava compiere il proprio dovere, fare con impegno e nelle regole il proprio lavoro di magistrati, e i mafiosi finivano condannati e in carcere. Per la prima volta, la mafia alla sbarra tremò. Ma con i boss, tremarono anche gli interessi altissimi e “raffinatissimi”, che dal 1943 avevano riportato la mafia ad essere quella che l’ex magistrato, Diego Tajani, già nel 1875, appena entrato in Parlamento, puntando il dito contro i banchi del governo, dichiarò di essere lo “strumento di governo locale”.
Il mio aereo, quel comodo volo Meridiana diretto da New York con delle hostess di una gentilezza e professionalità da incorniciare, era atterrato a Palermo in anticipo. Ma all’aeroporto che ora porta il nome di Falcone e Borsellino non funzionava nulla. Attesa di oltre venti minuti dentro l’aereo per poter scendere. Pioveva ma si camminava sulla pista dell’aeroporto, come se fossimo negli anni Cinquanta. Confusione assurda per la dogana internazionale, con un solo controllo dove tutti dovevano far passare i bagagli e la fila che diventavano interminabile. Il sorriso visto durante il volo dei turisti nell’impatto con quel caotico aeroporto, si è spento, anche quel bambino italoamericano visto in aereo che col papà si esercitava nell’italiano, è diventato triste. Pure questa è mafia, rendere difficile e caotico quello che dovrebbe essere semplice, organizzato ed efficiente. Ma chi gestisce così vergognosamente l’aeroporto che porta il nome degli eroi della Sicilia? Chi li ha messi lì a sporcare i nomi simbolo della Sicilia che sa compiere il proprio dovere?
La delegazione degli studenti NIAF a Palermo con Maria Falcone
Sono a Palermo grazie all’invito della Fondazione Giovanni e Francesca Falcone. Sono emozionato all’idea di partecipare alla commemorazione nell’aula bunker. Ci saranno, nell’aula, anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il presidente del Senato Pietro Grasso, entrambi palermitani.
La Fondazione Falcone ha coinvolto la National Italian American Foundation (NIAF), che viene rappresentata dal suo presidente John Viola. Sull’aereo della Meridiana non l’ho visto, penso arriverà con un altro aereo. Con me però hanno viaggiato gli studenti di una scuola pubblica di Washington DC, invitati a partecipare sempre dalla fondazione Falcone. I giovani americani, un melting pot di etnie, arrivano a Palermo per riempire ancora più di significati quel sacrificio del magistrato che sapeva come combattere la mafia lavorando d’intesa con i magistrati degli Stati Uniti. Così come significativo è l’accordo di partnership accademica, presentato in occasione delle celebrazioni di quest’anno, con cui la Commissione per gli Scambi Culturali tra l’Italia e gli Stati Uniti (che gestisce i programmi Fulbright in Italia) si è unita a Fondazione Giovanni e Francesca Falcone e alla NIAF per offrire, per il triennio 2016 -2019, tre borse di studio e ricerca in criminologia destinate a cittadini statunitensi, fino a 12,700 euro. Per lo stesso triennio, sono previste anche tre borse di studio fino a 12mila dollari per studenti provenienti da atenei siciliani che potranno svolgere attività di ricerca e studi in criminologia in alcune università degli Stati Uniti. Alla presentazione dell’accordo, venerdì mattina, c’erano Maria Falcone, sorella del magistrato, e Paola Sartorio, executive director di Fulbright Italia.

Dopo l’aula bunker, si andrà tutti sotto l’albero di Falcone che i cittadini palermitani, dopo l’attentato, riempirono spontaneamente di bigliettini. Quell’albero sotto casa del giudice, in via Notarbartolo 23, la strada del primo cadavere eccellente della mafia, quella strada che, continuando verso via della Libertà, poi diventa via Duca della Verdura, per essere certi che a nessuno vengano idee strane in testa.