Tre persone uccise, due ferite, un omicida. E un Palazzo. Uno dei feriti è in prognosi riservata; l’altro, fortunatamente, non è in pericolo di vita. Evidenti sono dinamica e movente: un delirio persecutorio si è impossessato di Claudio Giardiello e ne ha sostenuto la mano.
Il giovane avvocato, Lorenzo Claris Appiani, 37 anni, era suo ex avvocato; il coimputato, Giorgio Erba, 60 anni, era tale nella rovina fallimentare; e il magistrato, Ferdinando Ciampi, 71 anni, aveva dichiarato il fallimento della sua società. Uno dei feriti, Stefano Verna, 50 anni, era il suo commercialista, e l’altro, Davide Limongelli, 40 anni, era suo socio ed anche nipote. Il commercialista, l’avvocato e il magistrato erano testimoni a carico nel processo per bancarotta fraudolenta in corso di svolgimento.
Dovrebbe essere tutto qui: e, perciò, uno si aspetta dolore dei familiari e degli amici, sgomento nella pubblica opinione; al più, qualche domanda sulle condizioni di accesso ai luoghi pubblici e sui controlli previsti; qualche altro interrogativo, forse, sulla detenzione e sul porto d’arma da fuoco, sulle loro condizioni di rilascio amministrativo; volendo esagerare, qualcun altro avrebbe potuto azzardare meditazioni sulle verità scientifiche in ambito psichiatrico, sul fanatismo antimanicomiale che lascia sulle famiglie dei malati un problema spesso irrisolvibile e che li sovrasta (quando non uccide pure loro). Ma, insomma, l’eccidio del Palazzo di Giustizia di Milano non pareva ragionevolmente prestarsi a speculazione, a volgarità strumentali, ad abuso della sofferenza e della morte altrui. E invece no.
Già dai primi commenti, i morti, da tre tendono a ridursi nel numero; e non per intervenuta resurrezione di due di essi, ma per il ruolo formale del Dott. Ferdinando Ciampi, magistrato. L’impropria focalizzazione non si spiega solo con l’arte macabra che innerva certa deteriore retorica demagogica, o con l’inevitabile superficialità di un incontrollato sbocco emotivo. Il tramestio su questi cadaveri è stato ed è, invece, metodico e lucido.
Infatti, accantonati gli altri, si comincia subito a lavorare sul fatto ritagliato, stravolgendone la causale. Il Dott. Gherardo Colombo, su Repubblica TV, in video pochi minuti dopo il lancio, all’intervistatrice-collaborante dice: “A me è successo almeno tre volte”. Perdere un collega e amico? “Sì, a Milano (gli altri due erano Emilio Alessandrini, ucciso il 29 gennaio 1979, e Guido Galli, assassinato il 19 marzo 1980, ndr), perché persone che conoscevo bene sono state ammazzate anche altrove, sono Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino. La prima cosa è il dolore forte per questa mancanza”. E gli altri, magari si poteva pure chiedere? Niente: gli altri non ci sono più.
Ad un gesto senza nesso, si impone un nesso: non importa che le parole del Dott. Colombo siano vistosamente strumentali: serve introdurre la linea da seguire. E così accade. L’intervista non raccoglie l’espressione di un amico, ma si volge in messaggio, con tanto di annotazione. Infatti i nomi dei magistrati Alessandrini e Galli vengono inseriti come glossa redazionale (‘n.d.r.’). Le parole sono lucide perché, mentre i nomi usciti dalle labbra di Colombo attengono al versante di Cosa Nostra, quelli inseriti “a chiarimento” rimandano al terrorismo rosso, in particolare a Prima Linea. L’evocazione così complessivamente costruita serve a svelare la chiave di lettura e a fissarla come l’unica da seguire. La mano sarà stata anche di un anonimo raptus, ma lo spirito è dei Nemici della Magistratura. Gli unici morti che contano sono i magistrati; e le morti dei magistrati sono sempre eroiche e gli si deve non partecipe commozione ma annichilita sottomissione.
E’ un ordito sinistramente ecclesio-martirologico che, dalle quattro mani in avanscoperta, si viene svolgendo per l’intero telaio. Repubblica.it ha fatto lo scoop alle 11 circa di giovedì mattina, e ha lasciato la sua prima pagina immobile su questa notizia (dopo trenta ore siamo ancora lì e, dopo la sapiente preparazione, mentre scrivo, finalmente garrisce il vessillo: “Strage di Milano. L’accusa dei magistrati.’Giudici pagano isolamento’). Questa è l’era dei giornali on line, e chiunque sa che il “rullo” (cioè la titolazione e i commenti relativi) cambiano da tre a quattro volte nelle 24h. Solo in casi eccezionali si rimane fissi. Per intenderci: nemmeno per Charlie Hebdoo (e chi è?) Repubblica.it si è spinta a tanto. Si dirà: è una loro scelta. Non c’è dubbio, che è una scelta.
A tirare le somme arriva Stefano Folli, nome di peso, che commenta la frase del Presidente Mattarella (“Basta discredito sulle toghe”), in questo modo: “Sembra di capire, in altri termini, che il presidente non condivide la tesi di un sistema giudiziario che nella lunga stagione della "transizione" è andato al di là dei suoi confini. Se c’è stato conflitto con il mondo politico è solo perché qualcuno in questo ambito ha cercato di prevaricare sulla magistratura, tentando di piegarla e, appunto, di screditarla”.
Così, ecco che un fatto di cronaca concluso nella sua evidente unicità, si fa dischiudere a nuova vita: giacchè su di lui si erge e troneggia il vero protagonista, il Soggetto a cui tutti, anche i cadaveri, devono volgersi e dedicare la loro attenzione: il Palazzo di Giustizia di Milano, la vera ed unica vittima, sua Lesa Maestà.
Nell’intervista al Dott. Colombo (oltre che noto magistrato, è Consigliere della RAI e Presidente di Garzanti Libri) vengono richiamati Cosa Nostra e quindici anni di Brigate Rosse, Prima Linea e similari, e li si mettono a fianco di Claudio Giardiello. “Repubblica.it” monta, contestualmente, una diretta fiume, intercalandovi l’intervista-memorandum, ambiguamente messa al riparo di un’evocata amicizia; quindi, con una firma di prestigio (Stefano Folli è già stato direttore del Corriere della Sera ed editorialista del Sole 24Ore), ribadisce l’area tematica, artatamente dilatata fino agli anni oscuri della “transizione” (1992-1994, Tangentopoli, stragi di Palermo, Firenze, Roma e Milano). E schiera manu militari il Presidente della Repubblica: a cui si fa dire quello che non ha detto, ma nel modo insidioso e di consumata doppiezza che traspare dalle parole di Folli; giacchè, quella introdotta dal “Sembra di capire”, è un’interpretazione che non si può smentire, senza smentire la frase a cui si è deliberatamente incollata. Ciò che, evidentemente, non accadrà. D’altra parte, all’indomani dell’elezione di Mattarella, due altri generali di brigata del Gruppo Espresso-Repubblica (Viviano e Bolzoni) si erano spinti fino a Santa Venerina (provincia d Catania), per strattonare morbidamente il fratello del Presidente su una vicenda morta e sepolta e, soprattutto, ampiamente chiarita dal Prof. Antonio. Così, tanto per comunicare. Sicchè, col neo presidente del CSM, erano già state fatte le presentazioni.
E’ tutto molto vistoso, molto esibito. Molto vistosa è la distanza fra Giardiello, oscuro padroncino che da Benevento era emigrato nella brianzola Brugherio, per esplodere infine in un incubo, e le vette della questione di Stato, su cui viene fatta intervenire anche la sua Massima Carica. Molto esibito è lo schieramento di forze.
Perchè? Perchè Matteo Renzi, nonostante alcuni cedimenti ed incertezze, non è ancora affidabile sull’unico fronte interno che conta: la Tirannide Giudiziaria; sulla quale, in questi venti e più anni, si è ordinato il nuovo assetto di potere italiano. E su ferie e responsabilità civile, per gli standard di protervia e sopraffazione correnti, il Governo ha offerto pessimi segnali. Ancora in queste ore, il Presidente del PD, Orfini, credo inavvertitamente, ha toccato un tasto delicatissimo di questa oscura Seconda Repubblica: Gianni De Gennaro. E, nonostante le rassicurazioni dello stesso Renzi e del Gran Tutore Cantone (l’obiezione di Orfini riguardava la responsabilità politica e amministrativa dell’allora Capo della Polizia, non quella giudiziaria), il vaso di Pandora dei processi politici mascherati da processi di mafia è di quelli su cui non sono ammesse le menome incrinature. Verrebbe giù tutto.
Perciò stanno rialzando il tiro. Micidiali. Sono micidali.