Più che della stessa America, che della stessa Inghilterra e perfino della Germania, della Francia, della Svezia, del Brasile, del Messico, del Sudafrica, oggi in Europa, soprattutto in Italia, si parla di due Paesi asiatici ai quali viene con sospetta disinvoltura attribuito il valore di “civiltà plurimillenarie”: India e Cina, sissignori. I due Paesi che, in virtù della propria, smodata, sleale concorrenza, in virtù del disprezzo della dignità e delle esigenze umane, in virtù di un cinismo di fronte al quale rimpicciolisce il cinismo di tutti i ‘campioni’ del relativismo morale dal Novecento a oggi; consolidano con sommo gaudio le basi grazie alle quali superare il volume industriale e commerciale dell’Occidente e, per limitarci all’Italia, ridurre in mutande mezza Roma, Prato, Ravenna, Viterbo, Civitacastellana e altre città e cittadine della Penisola; e questo con l’”entusiastico” aiuto dell’Unione Europea, malata di “catechismo” post-colonialista: ponti d’oro a Paesi di “provate e antichissime tradizioni”, mano tesa a economie “emergenti”, “sane”, “vitali”; massimo rispetto, massima comprensione verso gli eredi di genti che conobbero la “frusta” del Colonialismo e dovettero compiere sforzi eroici e sovrumani per liberarsi una buona volta del giogo dei Bianchi…
Vengano in Italia, a “plotoni affiancati”, indiani e cinesi: creano lavoro!, dicono i nostri “internazionalisti” che il mondo, invece, non lo conoscono per nulla. In Italia indiani e cinesi creano lavoro solo per se stessi. Il che si chiama “discriminazione”. Lucida, sfacciata, implacabile discriminazione.
Sorge a questo punto il sospetto che nei piani alti della UE e dell’Occidente in generale, si provi tuttora un debilitantissimo complesso di colpa a tutto beneficio di questi popoli “vitali”, “creativi”, “esuberanti”. D’altro canto, “i padroni del vapore” dell’Occidente attuale, fino dai tempi delle scuole medie si sono abbeverati appunto al retorico “catechismo” anti-colonialista e anti-storico, per poi lasciare che un Continente come l’Africa finisse nelle fauci di mazzolatori locali in combutta con grandi industrie, con multinazionali nelle cui sedi si parla inglese, francese, olandese, italiano, anche tedesco. Questo, sì, che è colonialismo… Ed è subdolo, arido, perfido. Non ha un volto vero e proprio come potevano averlo invece l’Italia, la Gran Bretagna, la Francia di epoche ormai remote. Ai tempi andati, arabi, africani, indiani, cinesi di Tien Tsin e di Hong Kong, sapevano con chi avevano a che fare. Avevano a che fare con Sua Maestà Britannica, con l’Eliseo, con Palazzo Venezia. Ma ora? Ora a chi si rivolgono? Con chi protestano? Alle Nazioni Unite le quali non hanno mai saputo cavare un ragno dal buco, alle Nazioni Unite che, anzi, hanno spesso provocato spaventosi sconquassi, basti citare Srebrenica nella guerra balcanica degli anni Novanta e il Congo ai tempi di Lumumba?
E adesso vanno di moda, sì, India e Cina. Va di moda l’India responsabile del sequestro dei nostri marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i quali hanno fatto fuoco (ammesso che lo abbiano fatto) in acque internazionali e non certo in acque territoriali indiane, come dimostrato dai satelliti in azione perenne (Per una analisi diversa sull'accaduto leggere qui). Va di moda appunto l’India, che “anche” in questo frangente condiziona senza sforzo alcuno la politica delle Nazioni Unite, s’impone quindi a brutto muso, o con atteggiamenti melliflui a seconda delle circostanze, e perciò fa quel che vuole poiché reduce dai patimenti inflittile dal Colonialismo, qui di stampo britannico.
L’India. Ne celebrarono le bellezze, e ne sottolinearono anche le morbosità, le contraddizioni, due fra i più grandi letterati inglesi, Kipling e Forster. Ma resta forse qualcosa di quell’”India” le cui genti si mostravano mansuete, docili, generose, tanto da sposare la causa gandhiana (perciò indù, non musulmana) della non-violenza nella protesta anti-britannica? Ammesso che quell’”india” fosse esistita, oggi c’imbattiamo in un Paese nel quale vige una sola “legge”: quella del profitto e del soddisfacimento d’ogni desiderio possibile immaginabile. Ci troviamo ad avere a che fare con un Paese la cui industria brucia ogni giorno le tappe. Sfido io: in India s’impiega in modo massiccio, “continentale”, la manodopera minorile, indirizzo, questo, inesistente ai tempi del dominio britannico: se ne facciano una ragione gli anti-colonialisti che in vari casi risultano nocivi proprio ai popoli dei quali si proclamano difensori senza macchia e senza paura.
Lo spunto di questo articolo ce l’ ha dato il nostro Luigi col suo “In India lo schermo è schernito”, staffilata contro il Governo di Nuova Delhi che in questi giorni ha oscurato un programma della BBC sulle violenze carnali in atto appunto nel sub-continente indiano. Come se a nessun indù o a nessun musulmano venisse in mente di sopraffare e quindi stuprare “irresistibili” bellezze locali, ma non solo locali (l’oltraggio abominevole è toccato anche a donne bianche). Come se ogni indiano fosse campione di bontà, decenza, candore. Come se ogni indiano nutrisse per le donne il massimo rispetto. Conoscemmo l’India (Calcutta) nell’ormai lontano 1964: a quell’epoca uno stupro faceva ‘notizia’; se ne parlava con raccapriccio, con riprovazione, per giorni, settimane: in varie provincie indù nemmeno si sapeva che cos’era la violenza carnale.
L’India era indipendente da diciassette anni, ma il timbro inglese lo si avvertiva ancora. Ecco, lettrici e lettori, piaccia o no, l’India è “anche” questa: nessuna norma a tutela dei lavoratori, nessuna legge che protegga l’infanzia, nessuna dolcezza, nessuna comprensione verso la Donna. E un “regime”, appunto, che oscura, censura, mette a tacere; intimidisce e, se necessario, picchia, picchia duro. Come picchia sui nostri marò, che l’Italia non sa, o non vuole, difendere. Neppure Sonia Gandhi, a quanto ci risulta, si rende portatrice delle istanze dei due soldati che nessun crimine hanno commesso.
Eccola, quindi, l’India. L’India che con la Cina (e anche Stati Uniti e Brasile) inquina l’atmosfera a rotta di collo. Ma Nuova Delhi e Pechino ci vengono a dire che senza questo popò di sviluppo industriale non si saprebbe come sfamare miliardi di bocche umane… Balle: bocche umane venivano sfamate “anche” cinquanta o cent’anni fa. Sua Maestà Britannica provvedeva a sfamare anche bocche indiane. Oggi a centinaia di milioni di cinesi toccano le solite due palle di riso al giorno e ciuffi di verdura: nulla è cambiato rispetto al tempo di Mao o al tempo dei Mandarini: il prepotente sviluppo industriale e commerciale cinese non raggiunge che la metà della popolazione; nelle regioni occidentali della Repubblica Popolare Cinese, la vita è aspra, grama, come lo era negli anni della Rivoluzione Culturale, e anche prima. Nulla è cambiato nel trattamento dei neonati: in Cina si seguita ad assassinare neonate poiché le “femmine” non rappresentano braccia “utili”, sono quindi un “peso”, anzi, una condanna…
La verità è che gli apparati industriali indiano e cinese poggiano in buona parte, appunto, sul lavoro minorile, sullo sfruttamento ‘programmato’ di bambine e bambini: esseri umani che ai 40 o 50 anni non ci arrivano. Non possono arrivarci, costretti come sono a sgobbare in ambienti mefitici per dodici, se non quattordici ore al giorno; a vivere nell’intimidazione, nel sopruso; a nutrirsi di due, al massimo, tre soli alimenti, carne, uova, pesce, legumi esclusi.
Civiltà plurimillenarie India e Cina, quindi “nobili”, di “grande insegnamento” a tutti gli altri popoli della Terra. Ma smettiamola d’immaginare ameni borghi indiani e cinesi che non sono mai esistiti e di credere nella pulizia morale e mentale, nell’innocenza, nel candore di stirpi che hanno conosciuto il giogo colonialista. La società indiana e la società cinese costituiscono la negazione della libertà e della dignità umana. Facciamocene, appunto, una ragione. Smettiamo di trastullarci con un mondo che, sissignori, non è mai esistito.