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April 3, 2015
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L’Italia della dignità perduta e gli italiani dall’identità ritrovata

Riccardo GiumellibyRiccardo Giumelli
Allegoria della situazione post-unitaria: l'Italia indica a Cialdini i suoi nemici attorno a Napoleone III (l'albero): briganti, nobili borbonici, il clero e il papa; sullo sfondo Garibaldi ara un campo.

Allegoria della situazione post-unitaria: l'Italia indica a Cialdini i suoi nemici attorno a Napoleone III (l'albero): briganti, nobili borbonici, il clero e il papa; sullo sfondo Garibaldi ara un campo.

Time: 6 mins read

 

Troppa, troppa, corruzione. Impossibile non provare rabbia e amarezza miste a rassegnazione.  C’è una dignità da ritrovare perché è stata persa. O, forse, sarebbe meglio dire, c’è una dignità nascosta da una patina di polvere agli occhi di molti italiani e anche a quelli di chi italiano non è. La dignità è rispetto, fiducia e autostima. Qualità che negli ultimi anni sembrano, nel nostro paese, scarseggiare. 

Proviamo a capire quando e perché gli italiani hanno perso la dignità. 

Fino a gran parte del XVI secolo gli Stati italiani erano tra i più ricchi di Europa. Mercato, finanza, artigianato, arte, Signori e Principati diedero luogo ad una ricchezza diffusa, anche se spesso confinata in pochi ceti, pressoché ineguagliabile in altre zone del nostro continente. Jacque Le Goff ce lo spiega in un libro: Lo sterco del diavolo. L’uso crescente del denaro si lega allo sviluppo delle città, del credito elargito dalle banche delle grandi famiglie italiane ad altre, soprattutto straniere (banche fiorentine in primis) anche attraverso metodi di pagamento alternativi all’impiego della moneta, come la lettera di cambio o la rendita. Questo comporta nuova vita urbana e nuovi tentativi di riorganizzazione amministrativa da parte dei Signori, e non da ultimo una fiorente attività artistica che raggiunge il massimo, seppur i segni di disgregazione iniziano a manifestarsi, nel XVI secolo.

Poi un continuo e lungo declino a parte alcuni momenti, come quello precedente alla Prima guerra mondiale,  al periodo del miracolo economico e agli anni '80 del secolo scorso che portarono l'Italia tra le prime cinque potenze economiche del mondo, attraverso quello che fu definito “il sorpasso”  sulla Gran Bretagna (1987), a scapito però di un debito pubblico dalle proporzioni elevatissime.

In tutto questo si creano, a partire dall’Unità, due scollamenti: uno tra la classe politica e la società civile e uno più nascosto, per certi versi paradossale e subdolo, cioè tra la società civile e il modo in cui essa si percepisce. 

Il primo scollamento rimanda ad una classe dirigente, salvo rari casi, distante e percepita come autoreferenziale, opportunista, impegnata a difendere solo alcuni interessi di parte. L'origine risiede in una sorta di costruzione dell'Italia dall'alto: a Plombières, Napoleone III e Cavour stabiliscono i confini del paese a tavolino. Il paese non si costruiva, quindi, su un mito, magari dalla natura diffusa e popolare come una rivoluzione, un movimento, un sentimento comune, ma dall'iniziativa di singole persone animate dal desiderio di costruire una grande storia e probabilmente anche un grande mercato. Aver fatto l'Italia e poi tentare di fare gli italiani era un'operazione poco attenta alla storia e all’identità di un paese. Semmai gli italiani si decisero, finalmente, a fare l’Italia. Gli italiani, infatti, esistevano già, nel senso che esisteva un comune sentire diffuso nella penisola che sembrava poter determinare l'essenza di una identità, non tanto come appartenenza esclusiva ad uno Stato-nazione ma ad una cultura straordinaria, figlia e madre di una storia che quasi nessun altro paese può vantare.

Possiamo, quella storia, dimenticarla? Possiamo cioè compiere l'atto arbitrario di pensare ad una storia che rinasce del tutto con un evento, seppur di grande importanza come la costruzione dell'Unità? Sarebbe come pensare l'identità di una persona, per dire, a partire dal diciottesimo anno di età senza contare cosa sia accaduto prima. Gli italiani erano diversi ma nella penisola, specie nella classe più borghese ma non solo, si muovevano sentimenti comuni forgiati dalla letteratura dei grandi, dall’Illuminismo, dalle tesi liberiste. 

Tuttavia, mi si perdoni una necessaria sintesi di processi ben più complessi e di difficile interpretazione, lo scollamento più difficile da accettare è quello della società civile con se stessa, incapace di specchiarsi e riconoscersi, di coglierne il valore, di sentirne la forza e l'orgoglio. Sono prevalsi, soprattutto in questi ultimi anni, nichilismo, mancanza di fiducia, disillusione perché la società civile si è, a mio avviso, osservata nel modo sbagliato, cioè attraverso le lenti della propria classe dirigente e del sistema mediatico/giornalistico.  Si è diffuso un senso di rassegnazione, una sorta di lamentosa incapacità dell'italiano di darsi un sistema di regole, di ordine, di convivenza. La dignità è andata via via sfumando. Leggiamo certe notizie, prendiamo coscienza di determinati eventi e magari, allargando le braccia, pensiamo di meritarcelo. Ed invece non è così.

Purtroppo, non gioca a nostro favore una memoria lunga e densa come quella italica, frutto di processi straordinariamente intensi e pieni di significati. Quando la memoria è piena, per lasciare spazio al futuro bisogna cancellare, utilizzare l'oblio come forma di sopravvivenza. Ma questi oblii sembrano diventare ambiguamente materia quotidiana: la politica li utilizza a proprio vantaggio come pure il sistema mediatico. Lasciano che “il polverone passi”, come a dire che presto si tornerà a fare come prima, l’ importante è gestire l’urgenza del momento presente, l’unico che vale la pena di essere preso in considerazione per non perdere consenso e lettori.

La dignità è ritrovata se non ci lasciamo condizionare, nei nostri punti di vista, da pregiudizi, rassegnazione, nichilismo. La possiamo trovare anche in alcune parole scritte in un muro senza grandi pretese o intenzioni sensazionalistiche: “Non si vive solo di spaghetti”. Ma se quel muro si trova a Scampia, forse possiamo stupirci. Meravigliarci di un mondo che vuole mostrare la propria dignità e che purtroppo lo fa molto più sommessamente rispetto a coloro che la negano raggiungendo le prime pagine dei giornali. 

La dignità ritrovata sta nella nostra cultura, non solo in quella alta intesa come elitaria, della conoscenza scientifica o delle arti e delle lettere, ma in un saper fare diffuso che va dalla lavorazione della terra a quella manifatturiera che ha dato luogo a esemplari distretti industriali in grado di portare il Made in Italy in tutto il mondo. Non solo con straordinari prodotti ma come brand riconosciuto e apprezzato ovunque. Il marchio Ferrari è il più riconosciuto al mondo, davanti a Coca Cola, Google e Apple. Un successo che dovrebbe fare riflettere su quello che l’Italia sa e fa. E tutto questo dovrebbe essere di stimolo e d’impulso a qualsiasi politica europea troppo suddita di scontri franco-tedeschi incapaci di promuovere un vero sviluppo comunitario.   

Eppure certe vittorie sembrano nascondersi dentro altri fatti sconfortanti. Se il paese con il più grande patrimonio culturale, artistico del mondo, con il più alto numero di siti patrimonio dell’UNESCO, vede scendere nel 2013 i flussi turistici del 4,8%, rispetto ad una media europea che sale dell'1,6%, ed una Grecia che aumenta dell’11%, vuol dire che ci siamo incartati su noi stessi. Come se, consapevoli della nostra altezza e forza, poi mostrassimo inadeguatezza nel sostenere tanta capacità. 

Ciononostante basterebbe aprire gli occhi su quanto la cultura italiana – perché è da qui che si deve ripartire – viene ammirata e al tempo stesso divulgata nel mondo, non solo da coloro che all’estero ci vanno per lavorare, studiare, ma anche dagli oriundi e da un vastissimo gruppo di italofili, cioè di non italiani che amano l’Italia, la sua cultura e tutti i suoi prodotti. Amano cioè il cosiddetto italian way of life. Queste comunità all’estero, che abbiamo avuto modo di studiare, sono simbolo di un orgoglio e di un appartenenza unica, pur non vivendo in Italia. Basta fare una veloce ricerca on line per accorgersi di questo mondo diffuso e vastissimo. 

Una volta un grande sociologo italiano mi disse: “La forza dell’Italia sta nella sua fragilità”, voleva dire in un’identità non rigida, in una capacità di adattamento, in una prevalenza del soft power, quello della cultura e della comunicazione, piuttosto che quello dell’hard power, cioè delle armi e delle guerre. L’autostima è riconoscimento di quello che si è stati, capacità di visione di futuro e costruzione del presente come anello tra le altre due dimensioni.

Riappropriamoci allora di quello che siamo, eliminiamo certi oblii, sveliamo la dignità dalla sua polvere, in modo da trarne tutti beneficio: l’Italia, gli italiani e anche chi italiano non è.

 

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Riccardo Giumelli

Riccardo Giumelli

Un aforisma che più di altri mi rappresenta è quanto scrisse Machiavelli, citando Boccaccio: “che gli è meglio fare e pentirsi, che non fare e pentirsi”. Come loro sono toscano, animo inquieto in cerca di porti per approdare e ripartire. Dopo gli studi in Scienze politiche, ho iniziato ad amare i libri, fare ricerca e scrivere, al punto da rimanere nell’Università, prima Firenze poi Trento. A Dijon e poi a Parigi, ho lavorato alla Camera di Commercio italiana e all’OCSE. Tornato in Italia, sono approdato a Verona, dove faccio ricerca e insegno. Intanto un matrimonio e due splendide gemelline. Mi occupo di sociologia, cultura e comunicazione. Tra tanti nuovi inizi e altrettanti epiloghi, una costante: ho sempre tifato Inter. Infatti soffro di stomaco.

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