Nicole, Rosa, Maria Liliana: 3 ore, 8 mesi, 1 anno e due mesi; Catania, Napoli, Avellino. Tre vite spezzate, tre bimbe che non diventeranno mai donne. Tre corpicini troppo piccoli per qualunque bara. Tre morti troppo assurde per poter essere accettate. Il 12, il 13 e il 16 febbraio. Date vicinissime, in cui i loro cuoricini hanno smesso di battere, date tutte a ridosso della festa dell’Amore. La chiamiamo “Malasanità”, la etichettiamo tra gli errori di un sistema che uccide invece di salvare.
E la morte dalle bianche corsie di un ospedale finisce nelle gelide aule dei tribunali. Quelli a cui le famiglie chiedono “giustizia”. Nessuna sentenza di condanna, ove mai venisse emessa, riporterebbe in vita tre sorrisi o lenirebbe anche solo un pizzico il dolore delle loro mamme. O di chi combatteva per loro.
Nicole era nata da tre ore quando a causa di ospedali troppo affollati a Catania è deceduta in un'ambulanza, quella da cui partivano telefonate agli ospedali della zona per accogliere quella bimba con gravi problemi respiratori. Nulla, nessuno aveva posto.
Rosa era stata ricoverata per giorni al Santobono di Napoli. Era stata dimessa, stava bene per i medici. Una notte a casa e poi di nuovo la corsa disperata nello stesso ospedale: 45 minuti di rianimazione non sono riusciti a salvarle la vita.
Maria Liliana era nata pretermine, 5 mesi appena. Contro di lei il destino era stato spietato prima ancora che nascesse. Sua madre era stata colpita dal proiettile esploso dalla pistola di un vicino di casa che aveva sparato all’impazzata sterminando una famiglia. La mamma di Maria Liliana era finita in coma morendo pochi giorni dopo averla data alla luce. I suoi nonni erano morti sul colpo. La piccola soffriva fin dalla nascita di problemi ai polmoni ma i medici avevano deciso di trasferirla in reparto, quello del Santobono, anche per lei, come per Rosa, dove è deceduta.
Nicole, Rosa, Maria Liliana. Tania, Anna, Carolina. Tre bimbe, tre mamme. Quest’ultima non ha visto sua figlia nascere. Ma la sua famiglia ha visto entrambe morire. Raccontare di morte fa parte del lavoro di noi giornalisti. Si raccolgono informazioni, si ascoltano parenti o testimoni, si ricostruiscono i fatti e si ipotizzano scenari futuri. Ma quando la morte da raccontare è quella di tre bimbe, allora tutto cambia. La freddezza dei termini giornalistici cerca di lasciare spazio a quelli un po’ più ricercati. Non si parla di cadavere, ma di corpicino, non si scrive morte ma si preferisce “volate in cielo”. La spavalderia di domande a raffica ad interlocutori contrariati cede il passo a domande quasi sussurrate, in punta di microfono, cercando di non invadere e di non strumentalizzare il dolore altrui.
Le morti di queste bimbe sono però di quelle che chiedono giustizia, che finiscono nelle carte di un pubblico ministero, di una procura che dovrà decidere se ci sono responsabilità, se quelle vite sono state prematuramente spezzate per colpa di qualcuno, se tanto dolore si poteva evitare. Spesso a queste assurde morti, seguono notizie di funerali strazianti, di iscrizione nei registri degli indagati e infine, di inchieste che spesso vengono chiuse senza nessun inputato. Noi abbiamo raccolto lo sfogo di Rita, la zia della piccola Rosa, la bimba di 8 mesi che, dicevamo, dimessa dall’ospedale pediatrico Santobono di Napoli dopo 4 giorni di degenza, c’è ritornata il giorno dopo dove è morta. La incontriamo nel parco Conocal di Ponticelli, nella periferia orientale di Napoli. Un luogo senza colori in un quartiere di quelli difficili con palazzi bassi, di cemento, tutti uguali dove si fa fatica a riconoscere un barlume di criterio architettonico. Dove il confine tra legale e illegale è troppo sottile per essere colto. Ha gli occhi gonfi, zia Rita, poco più che ventenne, ci chiede di non essere inquadrata, ci racconta di rosa e della sua morte, chiede giustizia a nome di tutta la famiglia affinché nessuno patisca più il loro dolore. Qui di seguito il video dell'intervista.