Contenuti e toni della telefonata tra il consigliere Federcalcio Claudio Lotito e il direttore generale dell’Ischia IsolaVerde, Pino Iodice, “rubata” e in rete dalla settimana scorsa, confermano che lo sport italiano, in particolare il calcio, ha bisogno di uomini nuovi che non entrino nel mondo delle competizioni sportive solo per arricchirsi e fare carriera. Non è Lotito a preoccupare, personaggio pittoresco e da anni virtualmente bruciato nella sua piazza di nascita, la Lazio calcio, ma il sistema di potere che le sue parole illustrano e che ha di recente piazzato al vertice il razzista e bananiero Tavecchio. Lo sport autentico è quello della fatica e del sudore, della competizione non truccata da droghe e scommesse, del tifo non violento e innamorato dei campioni, non quello dei pacchetti finanziari e dei consensi elettorali nelle federazioni e nella politica.
La gente comune, e i tifosi che esprime, guardano con ammirazione a un Carpi o a un Frosinone che, espressione di piccole realtà locali, imprenditoriali e culturali, aspirano legittimamente a battersi con più grandi e ricchi club. Per Lotito, e il ceto dirigente che rappresenta, i due non frutterebbero abbastanza in diritti televisivi e marketing di immagine e quindi la loro promozione nella massima serie comporterebbe danni all’equilibrio del sistema finanziario che gira intorno al pallone. Affermazione che potrebbe essere contestata anche sotto il profilo finanziario, visto che le belle favole, persino nello sport, vendono, eccome!
Per la cura dei mali a volte soccorrono la medicina tradizionale e i decotti della nonna. La coerenza sportiva di un personaggio come Gino Bartali, sudore, fatica ed onestà sempre e comunque, potrebbe dire molto agli attuali signori dello sport italiano, magari partendo dal bel libro Un cuore in fuga che Oliviero Beha ha mandato in stampa da Piemme qualche mese fa, nel centenario della nascita del conterraneo campione fiorentino. Al centro delle quasi duecentosettanta pagine fitte di storia e aneddotica, e dei giudizi dai quali uno come Beha non riesce mai a stare lontano, due episodi che la dicono lunga su come moralità personale e autentico professionismo debbano e possano fondersi, nel ciclismo come in ogni altra disciplina sportiva.
Il primo accade nel 1943. È inverno e Bartali si allena su e giù per le strade che collegano Firenze ad Umbria e Nord Italia. In realtà sta salvando più di ottocento esistenze, quelle di ebrei in fuga dal nazi-fascismo ai quali procura documenti falsi, occultati nei tubi del sellino e del manubrio. Il campione si fa staffetta della speranza di vita per sconosciuti garantiti dalla rete clandestina Delasem e rischia la propria: “Se ti scoprono, ti fucilano”, gli ha detto con onestà il cardinale Dalla Costa che, da cristiano a cristiano, gli ha affidato la missione clandestina. Israele, per questo, proclamerà Bartali, decenni dopo, giusto tra le nazioni, ricordandolo nel Yad Vashem di Gerusalemme.
Il secondo episodio è dell’estate 1948. L’Italia è sotto choc per il tentato assassinio del leader comunista Togliatti. De Gasperi chiama al telefono il Gino nazionale che sta correndo in Francia il Tour e, al quasi quarantenne, implora la vittoria che rabbonisca gli animi pronti agli scontri di piazza. Il ciclista vince sull’Izoard ghiacciato ed evita al paese la guerra civile.
Beha restituisce a Bartali molte cose che il personaggio, schivo, non amava far trapelare, convinto che il bene s’ha da fare senza raccontarlo in giro. Una frase che il campione pronunciava quando sbagliava corsa, vale oggi per i nostri dirigenti sportivi: “L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare!”.
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