Per tre notti di fila manifestanti si sono riversati in strada sotto la mia finestra fino a dopo la mezzanotte, seguiti e preceduti dalla polizia, a piedi e nei cellulari, in una quantità che spesso sembrava sproporzionata rispetto alla quantità di manifestanti. Gli impulsi e la rabbia che mi avevano consumato la suola delle scarpe in quei “classici” giorni delle battaglie per i diritti civili in America mi hanno quasi fatto scendere in strada per unirmi alla protesta. Quasi.
Ma c'era una differenza. La differenza non è solo nella semplicità manichea di quelle vecchie lotte, quando i buoni e i cattivi sembravano così facili da identificare. C'era anche una differenza in quello che sapevamo. Sapevamo che le azioni di coloro che erano coinvolti avevano un significato e lo sapevamo perché ce lo avevano detto e quello che dicevano trovava riscontro nelle loro azioni, nel bene o nel male. Non c'erano stanze chiuse in cui nascondono cruciali drammi segreti.
Sui marciapiedi della città ora si è circondati da persone che sostengono di sapere. Sanno se il poliziotto strangolatore era razzista. Sanno se sapeva se aveva qualcosa da temere da Eric Garner. Conoscono i dettagli del confronto mortale a Ferguson, Missouri, e sanno cosa passava nella mente dei protagonisti.
Ovviamente non le sanno queste cose (come dimostrano le diverse opinioni portate avanti dalle diverse fazioni di coloro che affermano di sapere), ma sono costretti a sostituire i loro pregiudizi e preconcetti ai fatti, perché i sistemi giudiziari e politici hanno tenuto nascosti i fatti.
In questi tempi di telecamere di sorveglianza e telefoni cellulari, ci siamo organizzati in modo da evitare che tali dispositivi siano fonte di attendibilità, di giustizia e, come risultato finale, di armonia civile.
E i nostri politici si nascondono dietro questo sistema. C'è qualcuno che crede seriamente che tre giorni di corsi di formazione (che probabilmente sono una ripetizione di banalità che ogni poliziotto ha già sentito durante l'addestramento) possano cambiare la cultura della polizia?
Il tassello mancante qui è, ovviamente, la fiducia dei nostri cittadini nella possibilità che il sistema produca giustizia. Chiediamo loro di attendere l'esito della macchina della giustizia che dovrebbe produrre una punizione certa dei colpevoli, perché l'alternativa è il linciaggio che i nostri cittadini neri ben conoscono. Ma qualsiasi appello alla pazienza e alla fiducia è stato completamente demolito da uno straordinario caso (e sì, la sfortuna ha fatto la sua parte) di due Gran giurì che, nello spazio di appena pochi giorni, si sono rifiutati di portare in tribunale i casi che erano stati loro sottoposti. Avendo previsto l'esito delle sessioni del Gran Giurì, scettici e demoagoghi hanno provato di avere avuto disastrosamente ragione.
La previsione non era difficile. Triste dirlo, ma gli italiani hanno una particolare capacità di capire cosa sia andato storto. Hanno assistito a due decenni di annunciate riforme del sistema giudiziario, e il punto numero uno sulla lista dei riformatori è la "separazione delle professioni". Molti altri guasti nel sistema italiano non saranno efficacemente corretti fino a quando il magistrato nel ruolo di pubblico ministero (PM) è uno stretto collega, dello stesso pool professionale, del magistrato nel ruolo di giudice. L'avvocato difensore è un outsider con probabilità di successo accumulate contro di lui dal clientelismo.
In questo paese, i Gran giurì sono caratterizzati da un diverso assortimento di compari, ma con lo stesso effetto distruttivo sulla giustizia. I pubblici ministeri sono amici e alleati della polizia, hanno bisogno della polizia per fare il loro lavoro. Hanno bisogno dell'atteggiamento compiacente dei poliziotti che pensano che loro e i procuratori siano parte di uno stesso lavoro di squadra. E così, quando l'imputato in un'udienza del Gran Giurì è un poliziotto, è impossibile aspettarsi un procedimento equo e rigoroso. Per il procuratore sarebbe come tagliarsi la gola.
Non è esagerato dire che nessun politico dovrebbe essere considerato onestamente intenzionato a produrre una più giusta applicazione della legge da parte della polizia se non affronta il problema del sistema dei Gran Giurì che in molti casi è una risorsa per il conseguimento della giustizia.
Di fronte agli strepiti del sindacato di polizia, un serio riformatore non può evitare di invocare un sistema in cui, in questi casi, il pubblico ministero sia un outsider indipendente. In aggiunta, per il bene sia della polizia che di coloro con cui la polizia si confronta, dovrebbe essere obbligatorio pubblicare, nei dettagli, i risultati che hanno portato il Gran Giurì a decidere di procedere o meno con l'incriminazione (quelle che in Italia si chiamano motivazioni e che in America sono richieste in alcuni stati, ma non in altri, come ad esempio New York).
Queste riforme (insieme a una buona formazione professionale e alla sensibilità verso la comunità nel recrutamento degli agenti di polizia) non faranno il miracolo nelle relazioni tra polizia e comunità, ma senza di esse non c'è modo di evitare la reiterazione di quanto avvenuto negli ultimi giorni.
L'esperienza del figlio del direttore de La VOCE è stata positiva. La professionalità e la cortesia hanno prevalso. Anche per me le cose sono sempre andate così e io voglio che ci sia una buona presenza di polizia nel mio quartiere. Ma io sono bianco.
*Stanton H. Brunett, già direttore degli studi del Center for Strategic and International Studies di Washington, DC, è l'autore di The Italian Guillotine: Operation Clean Hands and the Overthrow of Italy's First Republic (Rowman & Little Field, 1998).