E' il giorno più importante, simbolicamente, del processo sulla presunta trattativa Stato – mafia. Al Quirinale, a partire dalle 10 di martedì, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano deporrà – se lo vorrà – come teste della pubblica accusa. Il clima è molto teso. La presenza in udienza del procuratore aggiunto Leonardo Agueci non è andata giù ai pm del processo, Vittorio Teresi, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. La Procura di Palermo, infatti, continua ad essere spaccata sulla"trattativa", e molti magistrati non fanno mistero di ritenere tutta l'inchiesta un polverone creato mentre Antonio Ingroia era alla vigilia del suo impegno in politica.
Del Bene e Tartaglia hanno dichiarato alla vigilia. "È un momento difficilissimo. Questo processo – ha dichiarato Del Bene – non è voluto da tutti, specie dai rappresentanti dello Stato". Parole che hanno suscitato reazioni indignate da parte di molti esponenti delle istituzioni. "Con il termine Stato – ha poi rettificato Del Bene – mi riferivo ad esponenti della politica nel senso generale della parola, e nello specifico a nessuna carica istituzionale". Aggiunge Tartaglia: "Noi a Palermo lo sappiamo bene come si fa la lotta alla mafia, così come la facevano Falcone e Borsellino. La lotta si fa da innamorati della verità, quella cosa che ci sostiene nei momenti più difficili".
Ma cosa è successo tra li 1992 e il 1993? Tante cose. Adesso arriva l'ultima rivelazione. Un documento del comandante generale dell'Arma dei carabinieri Antonio Viesti – agli atti del processo di Palermo sulla trattativa Stato-mafia -, indirizzato al Servizio segreto militare il 20 giugno ‘92, segnalava che dopo Falcone (ucciso il 23 maggio a Capaci) l'obiettivo della mafia sarebbe stato il procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino, che «correrebbe seri pericoli – si legge nel documento pubblicato domenica dal Corriere della Sera – per la sua incolumità a causa delle ultime inchieste sulla mafia trapanese». La nota ribadisce che anche i politici siciliani Salvo Andò (Psi) e Calogero Mannino (Dc) correvano rischi, come era stato segnalato già dopo l'omicidio di Salvo Lima avvenuto il 12 marzo ‘92. L'appunto indica anche come possibili vittime della mafia due carabinieri in servizio a Palermo: il capitano Umberto Sinico e il maresciallo Carmelo Canale, che lavorava con Borsellino. Viesti scriveva che le finalità della mafia erano quelle di «indurre un clima di grave intimidazione nei confronti di politici, per flemmitizzare l'impegno contro la criminalità ed eliminare fisicamente alcuni inquirenti evidenziatisi nella recente, proficua attività di repressione».
Tornando all'udienza di oggi, al Quirinale saranno ammessi, a parte i giudici, soltanto i pm, gli avvocati e le parti civili. Per arrivare a questo interrogatorio ci sono volute ben due ordinanze. Napolitano avrebbe dovuto rispondere su un solo articolato di prova, cioè sulla lettera che gli fu inviata dal suo defunto consigliere giuridico Loris D'Ambrosio il 12 giugno 2012 sulle polemiche per le telefonate al Quirinale di Nicola Mancino, intercettato dai pm palermitani nell'ambito dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. D'Ambrosio ribadiva la propria correttezza, ma esprimeva anche il timore «di essere stato considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi, e ciò nel periodo fra il 1989 e il 1993». Di qui la richiesta di citazione dei pm, il 17 ottobre 2013, del Capo dello Stato. Napolitano, il 31 ottobre successivo, mandò una lettera alla Corte d'Assise in cui ribadiva la propria disponibilità a testimoniare, ma sottolineava di non avere avuto «ragguagli» o «specificazioni» da D'Ambrosio riguardo ai quei timori e pertanto di non avere «da riferire alcuna conoscenza utile al processo».
Con l'ordinanza di venerdì scorso, la Corte ha accolto la richiesta degli avvocati Luca Cianferoni e Giovanni Anania, che difendono il boss Salvatore Riina, di esaminare il capo dello Stato e l'interrogatorio potrebbe allargarsi anche all'allarme attentati ai danni dello stesso Napolitano e dell'allora presidente del Senato Giovanni Spadolini, lanciato dal Sismi tra il 1993 e il 1994, secondo quanto emerge dai documenti depositati dai pm ed acquisiti dalla Corte di Assise. «Credo – ha dichiarato Cianferoni – che il Presidente possa offrire un contributo importante per ricostruire quella stagione».
La sala scelta dovrebbe essere quella del Bronzino. È lì, dove abitualmente il presidente della Repubblica incontra i Capi di Stato ospiti prima dei colloqui ufficiali, che Giorgio Napolitano testimonierà al processo. All’udienza dovrebbero partecipare una quarantina di persone: i giudici – togati e popolari – la cancelliera, cinque pm e gli avvocati delle sette parti civili e dei 10 imputati non ammessi dalla corte a partecipare direttamente o in videoconferenza alla testimonianza. Il Quirinale resta off limits alla stampa che non potrà seguire l’udienza neppure a distanza, attraverso la videoregistrazione: possibilità non esclusa dai giudici che avevano dato il nulla-osta alla presenza da remoto dei media, ma «bocciata» dal Colle che ha regolamentato rigidamente l’accesso al palazzo. Le parti processuali non potranno infatti portare cellulari, tablet, pc e strumenti di registrazione.
L’udienza sarà verbalizzata secondo le regole ordinarie, i verbali andranno poi alla corte e saranno disponibili per le parti, una volta trascritti, nei giorni successivi. A rivolgere per primo le domande al capo dello Stato sarà il procuratore aggiunto Vittorio Teresi. Dopo i pm sarà la volta dei controesami dei legali. La corte, all’ultima udienza, ha ricordato comunque che l’esame di Napolitano è subordinato alla sua disponibilità sottolineando che il presidente potrebbe revocarla in qualunque momento.