Mentre il sindaco di New York, Bill de Blasio, scatena le ire delle associazioni in difesa dei diritti degli homeless per aver mandato via dalla città oltre 1.400 senza tetto dall'inizio del suo mandato, Richard Gere, in Time Out of Mind, porta alla nona edizione del Festival di Roma il dramma di chi a causa della crisi economica si ritrova per strada o a dover bussare alle porte dei ricoveri pubblici.
Secondo la Coalition for the Homeless, l’associazione che dal 1985 si occupa di censire e assistere i “senza casa”, nella principale città americana sono circa 56.987 coloro che vagano per le strade di New York. Sono la faccia della New York povera, quella che, si diceva, sarebbe scomparsa agli inizi degli anni '90. Raggomitolati sui marciapiedi o ammassati negli affollati centri di accoglienza, che assomigliano sempre più a delle prigioni, l’esercito degli invisibili è composto da uomini e donne, single e coppie, bianchi e neri, americani e stranieri, ma anche tante famiglie.
E come ogni città, anche Homeless City, è abitata da bambini. Tanti. Nella Grande Mela sono 21.000. Eppure per gli homeless è sempre meglio vivere a New York che altrove visto che è l'unico posto in cui per legge devono ricevere assistenza, anche se non risiedono legalmente in città, e tantomeno negli USA.
“Girando nelle vie di New York vestito come un barbone, ho visto come la gente reagisce di fronte a loro. È terrorizzata da quello che rappresentano, il fallimento, la solitudine, e così li evitano. Camminano veloci e incapsulati nelle loro cuffie, nei loro cellulari per paura di essere contagiati”, ha raccontato Richard Gere in conferenza stampa.
Nel film, diretto da Oren Moverman (candidato all’Oscar per lo script di The Messenger, anche esordio in regia), l’attore interpreta George che dopo aver perso amici, famiglia, lavoro, casa, si aggira con una valigia e un sacco della spazzatura per le strade di New York City cercando di trovare un posto dove stare e passare le giornate. Quando ottiene un letto e buoni pasto al Bellevue Hospital, il più grande rifugio per senza tetto di Manhattan, la disperazione della sua situazione diventa più evidente come la sua malattia mentale. Girato in 21 giorni, in assoluto low budget e con cineprese digitali nascoste in giro per la Grande Mela, il film, nonostante il tono paternalistico e pedante, mira a far riflettere sulla condizione degli homeless tra elemosina, centri di accoglienza e indifferenza generale.
Ma il panorama appare ancora più drammatico nei centri per famiglie senza tetto lontano da Manhattan come nel Bronx, ad Harlem, oppure in altri luoghi dove decine di migliaia di newyorchesi stentano a sopravvivere, lontano dagli occhi e della mente del resto della città. E intanto emerge una nuova generazione di senza tetto, che vivono in baraccopoli ribattezzati Obamavilles, in ricordo delle Hoovervilles che si moltiplicarono negli USA durante la Grande Depressione degli anni '30 e la concomitante presidenza di Herbert Hoover.