La notizia: “Azzerato dopo diciotto anni il processo a Verona alle cosiddette 'Camicie verdi', tra le quali l’ex sindaco di Treviso Gian Paolo Gobbo”. Cos’è che accade, a distanza di diciotto anni? Accade che il tribunale, dopo diciotto anni, decreta l’“incompetenza territoriale di Verona”, e dispone l’immediato trasferimento del procedimento alla procura di Bergamo. Dopo diciotto anni. Resta l’accusa di aver costituito un’associazione di carattere militare con scopi politici: inizialmente ne avrebbero dovuto rispondere anche Umberto Bossi, Mario Borghezio, Francesco Speroni a Roberto Calderoli, Emilio Gnutti, Roberto Maroni. Secondo la Procura, i militanti leghisti si erano dotati di un'uniforme (camicia verde con stemma), erano inquadrati in gruppi territoriali gerarchicamente organizzati, con l'individuazione di responsabili locali tenuti a seguire rigorosamente le direttive del Capo. La struttura, sempre secondo le contestazioni degli inquirenti, era “opportunamente addestrata per un'eventuale impiego collettivo in azioni di violenza e minaccia peraltro presentate come azioni di legittima difesa di pretesi diritti violati”.
Vero o esagerato che sia, si sta parlando di un qualcosa che risale a diciotto anni fa. Diciotto anni per stabilire che la competenza a indagare e a emettere una sentenza su questa vicenda non spetta a Verona ma a Bergamo. A distanza di diciotto anni dall’apertura dell’inchiesta (avviata dall’allora procuratore Guido Papalia), il Tribunale di Verona stabilisce la sua “incompetenza territoriale” che si concreta in un ennesimo rinvio, a data da destinarsi. Nell’ordinanza i giudici scaligeri riconoscono che le iniziative delle Camicie verdi hanno preso il via tra Pontida e Stezzano, cioè in terra lombarda. Diciotto anni, per stabilirlo… Non finisce qui: a Bergamo il procedimento non ripartirà dall’inizio del nuovo processo, bensì dall’avvio di una nuova inchiesta da parte del pubblico ministero, che dovrà poi passare il testimone al giudice per l’udienza preliminare per predisporre l’eventuale rinvio a giudizio. Si riparte di nuovo da zero, ed è comunque prevedibile che tutto finirà in gloria, cioè in prescrizione. Viva, viva la giustizia italiana!
Di palo in frasca, ma non tanto. Il leader della Destra, Francesco Storace è quel personaggio che è. Svelto di lingua, spesso e volentieri si concede battute che legittimamente possono essere considerate sgradevoli, cadute di stile che da sole si qualificano, e qualificano il personaggio, sono rivelatrici dei suoi valori, appartengono alla sua storia che orgogliosamente rivendica. Buon pro gli faccia, e buon pro faccia a chi in lui si riconosce e dà fiducia. Che sia inquisito come è inquisito per vilipendio (nel suo caso dell’istituzione capo dello Stato), che questa vicenda risalga al 2007, e che per questa vicenda rischi una condanna fino a cinque anni di carcere, beh!, anche questa è cosa che per commentarla adeguatamente si rischia il vilipendio. Non c’è da scomodare Voltaire e la sua celebre frase sull’aborrire l’opinione di un avversario ma di essere disposti a morire purché ci sia la libertà di poterla esprimere. C’è solo da avere una briciola di buon senso e di senso buono: perché fare di Storace un eroe e un martire? Sembra di essere sul set di un vecchio film, quel La legge è legge di Christian Jacque, con Totò e Fernandel, quando quest’ultimo si trova sulla linea di confine, e il gendarme francese e il carabiniere italiano questionano e strologano di codici, cavilli e pandette. Solidarietà completa e totale a Storace, e condanna totale per un potere legislativo che non ha saputo, voluto, potuto abrogare i reati d’opinione. Si vergognino.