Mentre Genny 'a Carogna diventa “questore per una notte”, assicurando che non ci sarebbero stati disordini pubblici da parte della tifoseria che rappresentava; mentre incalza la campagna elettorale per le elezioni europee, tutti contro tutti con toni da stadio, dando, come sempre, l’impressione che la consultazione non serva a nulla, perché l’Europa non serve a niente, e quindi altro non sono che un misuratore delle scelte politiche degli elettori, sento la necessità di guardare altrove. Di guardare a quei segni forti, pieni di significato, totalizzanti che l’Italia e la sua cultura ci hanno dato. Lo faccio per non farmi travolgere dallo squallore intorno, lo faccio perché è necessario ricordarlo e sapere che anche questo fa parte di quello che noi siamo e di quello che non siamo, cioè un paese dove figli di camorristi discutono con giocatori e con responsabili dell’ordine interno di uno stadio, dando il benestare o meno ad un evento sportivo.
Penso questo leggendo alcune righe del filosofo Mario Perniola che mi rendono consapevole con quanta complessità si abbia a che fare e, al tempo stesso, alla forza e alla meraviglia che ne derivano : “Esistono ormai nel mondo decine di paesi le cui culture sono più mescolate di quella italiana, ma solo in Italia esiste una tradizione quasi millenaria in cui la mescolanza ha acquisito paradossalmente una sua purezza, ha cioè una dimensione autonoma che la differenzia dal mero disordine e arbitrio”.
L’Italia è segnata da una vocazione universalista ben al di là e prima dell’ideazione delle “sue” grandi istituzioni: l’impero, il mercato, la cristianità. Tutto sembra generarsi da quella posizione geografica e particolare che la contraddistingue, una penisola che si estende tra i punti cardinali: con un Nord prossimo alla Germania, un Sud a pochi chilometri dalla Tunisia ed un Est che si prolunga fino a quasi in Albania e in Grecia, a cavallo di tre religioni: la cattolica, l’ortodossa e la musulmana, senza per questo dimenticare la giudaica e la protestante, che nella penisola hanno visto rispettivamente effetti e cause.
In questa terra dove le culture si sono schiuse l’una all’altra, il mare rappresenta l’elemento di sottofondo, il quadro generale ove tutto si muove e muta. Ha da sempre accompagnato le opere dell’uomo, con il suo eterno movimento, mostrando uno spazio visibile e percorribile lo ha chiamato a sé, come ad indicargli una via di uscita, l’immenso di nuovi spazi da scoprire e da conquistare. Tra incanto e ragionevolezza, gli italici, come forse nessun altro popolo al mondo sono stati un laboratorio di sperimentazione di nuovi mondi possibili. Hanno incessantemente viaggiato ed oggi non è strano trovarli ovunque, anche in paesi storicamente meno ricettivi all’immigrazione italiana (Danimarca, Russia, Svezia), dove hanno costruito una rete di relazioni, di interessi, di affari, magari gestendo un ristorante o un piccolo albergo.
Per non parlare dei prodotti italiani, che si possono trovare negli scaffali di supermercati di paesi sperduti, ovunque nel mondo, magari in un centro commerciale negli USA, in un lontano villaggio sperduto fra le montagne, in spazi desolati. La penisola, a differenza di un’isola, non isola, mantiene un rapporto anche con la terra, non cancella il ricordo, non interrompe la relazione. L’italiano parte senza effettivamente partire del tutto, come se mantenesse un cordone ombelicale lunghissimo con la sua Patria. Da qui un sentimento di fuga da tutte le posizioni dicotomiche, che possono svelarsi assolute, che ingabbiano lo spirito, come a volere lasciare uno spazio per nuove prospettive e speranze, senza per questo dimenticare da dove si proviene, le proprie radici. Non le appartengono assolutismi totalizzanti, ma mediazioni e relazioni dedite a coglierne l’inconsistenza e l’infondatezza.
È l’anima di chi è in cerca di eccezioni, di chi vuol afferrare con curiosità gli aspetti nascosti delle regole, per rivelarne la relatività e innalzare la bandiera della libertà dello spirito a condizione esistenziale ed universale. L’ Italia “si difende e si isola male e ha dentro di sé i mille segni degli invasori, i colori e i nomi di terre vicine e lontane, poca purezza e molti transiti, incroci e arrivi”, scrive il sociologo Franco Cassano. Una porta continuamente aperta, costretta dai mari ad esserlo perpetuamente. Ciononostante: “Essa non ama separarsi del tutto e cercare la propria differenza in una purezza incontaminata, preferisce tenersi a contatto, poggia una mano sulla ringhiera. Non c’è l’orgoglio e la solitudine, non ci sono la fierezza e il silenzio, foreste impenetrabili, la continuità ininterrotta e inaggirabile di coste scoscese e inespugnabili, non c’è il ventre profondo dell’oceano, non c’è il misticismo dell’estremo, lo sguardo dall’alto”, continua Cassano.
La sua influenza è penetrata per tutto il Mediterraneo ed oltre, allorché un grande esploratore di mondi possibili si convinse di poter circumnavigare il globo, scoprendo l’America. Il mare è fascino e seduzione. È il sogno di una speranza, di una promessa che coincide con quella linea dell’orizzonte oltre il quale forse esiste un altrove, un altro modo di essere e di pensare la vita. Il mare è la profondità di un abisso terrorizzante e di un orizzonte senza confini, che attrae ed intimorisce. Il mare ha riempito di visioni oniriche gli occhi dei tanti italici che lo hanno ammirato, concorrendo a creare un alone di magia sulla penisola, dove ogni onda si trasforma in barca e ogni vento in soffio vitale.
Una magia che si è rigenerata nel tempo e che ha contribuito a idealizzare l’Italian dream, il sogno italiano così associato a quello della Dolce vita. Sì, la Dolce vita che ha riportato l’Italia sul palcoscenico del mondo negli anni del miracolo economico, combinando leggerezza, libertà ed allegria con il duro lavoro di milioni di italiani desiderosi di migliorare la propria vita. Una fantasia per rendere la vita più morbida, addolcita, magari afferrando un piacere fuggevole che la modernità spesso costringe a lasciar andare, facendosi continuamente rincorrere. È il prevalere dell’ideale di voler abbellire la vita, “liberandola dall’assedio di una serietà che non prevede il dono della grazia, l’idea di uno sguardo benevolo del Signore”, scrive ancora Franco Cassano, come a suffragare le nostre idee. È il risultato di una tradizione cristiana che fa prevalere l’indulgenza e le carezze sulla punizione, il perdono sul castigo e quando “la morbidezza che viene da questa convinzione di un diritto alla grazia, quando incontra la serietà e la passione per la perfezione e il risultato, mette al mondo cose importanti”, quando la sensualità incontra il rigore e sa diventare opera, probabilmente chef d’oeuvre.
La Dolce vita appare distrazione, spettacolo, passione che grida contro un destino ineluttabile. È lo scherzo, la presa di giro, la fantasia come osservò Orson Welles: “Fellini è essenzialmente un ragazzo cresciuto in una piccola città, e non è mai veramente arrivato a Roma. Continua a sognarla. E dovremmo essergli tutti molto riconoscenti di quei sogni. La forza della Dolce vita viene dalla sua innocenza provinciale. È così totalmente inventata”. Come coloro che lasciarono la penisola emigrando s’inventarono una nuova vita, ingegnandosi tra speranze e certezze, tra sogni e tradizioni.
La cultura italica rappresenta la tensione fra esistenza terrestre e divina sintetizzata nella rappresentazione dell’incarnazione di Dio in Cristo. Ha pensato l’uomo vicino all’Onnipotente, del quale è immagine e somiglianza. Ne ha cercato il contatto, la vicinanza credendo di poterlo sentire tramite l’intercessione dei santi, perché “Dio si è fatto uomo”. In questa sintesi tra cielo e terra, nel sentimento di un’unione, ben rappresentata dalla posizione degli indici tesi a toccarsi di Dio e di Adamo dipinti da Michelangelo nella Cappella Sistina, a simboleggiare la creazione dell’uomo, l’anima italiana raggiunge il punto più alto della creazione, “di qui la perenne ricerca di ponti e vie di comunicazione, quella passione per gli idoli e per i santi, quel desiderio di segni e di prove che spinge l’anima italiana verso un’inguaribile richiesta di contatto”. Da quest’energia nasce il “miraggio” di pensare la pace, non tanto sotto le mentite spoglie di situazioni accomodanti e accondiscendenti, ma come forza creatrice per convocare la diversità, misurandosi realisticamente con le ragioni del conflitto identitario.
Di tutto questo l’identità italica mi sembra una sintesi degna di considerazione, alla quale è opportuno sacrificare energie e riflessioni affinché si possa riscoprirne le essenze che l’hanno determinata. Soprattutto è necessario comprendere che essa costringe ad assumere uno sguardo più complesso e profondo, flessibile e analitico sui mali che l’hanno lacerata; perché possano emergere le verità in grado di dischiudere un “ritorno al futuro”. Inteso come un aprire le ali supportati da un passato che non sia più zavorra ma spinta e slancio verso l’avvenire.
Sì.. per un attimo ho dimenticato come si chiama quel capo ultrà, quello a cavalcioni sulle transenne. Non lo ricordo, ma tra poco aprirò un giornale e lo ritroverò.