Caro Direttore,
Camera a Sud di oggi è una lettera a Lei indirizzata.
Da sincero sostenitore del progetto editoriale che Lei dirige con successo, nonchè da columnist della prima ora de La Voce di New York confesso di aver provato un forte imbarazzo e disagio nel leggere l’articolo di Toni De Santoli (“Furore”) dello scorso 22 marzo, intitolato “Il fallimento della decolonizzazione”.
Un disagio al contempo personale e politico. Perchè ha davvero avvilito il fatto che un collega potesse, sul nostro giornale, condensare in poche battute una così poderosa valanga di luoghi comuni sull’Africa da far rabbrividire. Le valutazioni superficiali, i giudizi approssimativi, le gravi dimenticanze dell’articolo di De Santoli mortificano tutti i tentativi di formulare una nuova narrativa sull’Africa. Incluso quello della nostra umilissima Camera a Sud.
La visione dell’Africa che la rubrica Furore ha offerto nel pezzo del 22 marzo sembra uscita da un dibattito da bar sport nemmeno tanto aggiornato. Forse già al Caffè Garibaldi o al Bar Marisa – indicati come luoghi di ritrovo dei professionisti del terzomondismo – gli avventori più abituali e sprovveduti sarebbero in grado di offrire una visione più articolata di quella assai approssimativa e grossolana offerta dal De Santoli. L’Africa tutta una chiavica senza speranza, questo in pillole, il pensiero di Furore.
Il caro De Santoli, invece di citare personaggi che rimpiangevano la fine del colonialismo quando i Paesi afro-asiatici si apprestavano a conquistare l’indipendenza, potrebbe aggiornare le sue letture in modo da argomentare un po' meglio asserzioni così convinte e perentorie. Il tema del fallimento della decolonizzazione era forse attuale due decenni fa. Quando molte delle elitès africane che guidarono il processo di indipendenza dimostrarono di non essere all’altezza delle speranze suscitate dai moti anti-coloniali. Un po' come accadde con le critiche subite dalle classi dirigente liberali di alcuni giovani paesi europei, colpevoli di aver innescato, con il loro malgoverno, l’avvio di catastrofiche esperienze dittatoriali o totalitarie. Oltre a consigliargli ovviamente una lettura più attenta di Camera Sud – qualora ritenesse utile confrontarsi con un punto di vista diverso “a portata di click” – suggerirei al De Santoli di consultare il libro Emerging Africa: How 17 Countries are leading the way (Steven Radelet, Center for Global Development, 2010). Il volume esamina in maniera approfondita le storie di successo di 17 Paesi dell’Africa subshariana. Storie che smentiscono la retorica pessimista e male informata di un continente senza speranza, avvolto nelle tenebre. Solide performance economiche (con medie annuali di crescita del PIL oltre il 5 per cento), diminuizione del 10% del numero di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà (1dollaro e 25 al giorno), crescita impressionante della scolarizzazione, miglioramenti in molti indicatori relativi alla situazione sanitaria: sono questi i fattori indicati come i drivers della crescita del gruppo di Paesi che comprende Botswana, Burkina Faso, Capo Verde, Etiopia, Ghana, Lesotho, Mauritius, Namibia, Ruanda, Seychelles, Sud Africa, Tanzania, Uganda e Zambia. Un racconto diverso dalle cifre sparate a casaccio dal De Santoli con il suo piglio fantasisoso e catastrofista: “quattro su cinque africani crepano di fame…nella morsa di patologie orripilanti nella stretta d’un supplizio che non si ferma mai…”. Il libro di Radelet indica nella proliferazione di governi democratici eletti ispirati ai principi della buona governance una delle ragioni fondamentali del successo. Tra il 1989 e il 2008, secondo dati forniti dallo studioso e da diversi centri di ricerca, il numero delle democrazie in Africa subshariana è passato da 3 a 23. Una storia diversa ed assai più complessa della visione manichea e poco documentata del De Santoli: tutta l’Africa come la Somalia, il Mali e la Repubblica centroafricana. Suggerirei infine al collega, ed a chiunque voglia avere un’idea più ampia di quel che accade nel continente, la visione di Focus on Africa, un bellissimo programma della BBC che va in onda quasi tutti i giorni sul satellite. Il notiziario è una preziosa finestra sull’Africa. Una finestra che offre una visione inedita e articolata dei tanti progressi che, pur tra luci e ombre, segnano la vita di molti paesi del continente.
Su una cosa – forse l’unica – il De Santoli ha ragione da vendere. L’Africa è ricca di risorse che potrebbero essere sfruttate assai meglio di quanto fatto sino ad ora dalla corrotta sinergia tra alcuni governanti e ciniche imprese multinazionali. Eppure questo merito dell’articolo perde rilevanza rispetto all’esercizio di revisionismo pane e salame nel quale si cimenta l’autore. “Almeno, all’epoca del colonialismo vigevano leggi, leggi emanate dalle capitali dell’Europa Occidentale”.
Caro Direttore, devo confessarle che leggere un pensiero simile, di taglio ottocentesco e reazionario, sprovvisto di ogni evidenza, su un giornale come La Voce di New York, libero e liberale, ha un po' sorpreso e dispiaciuto.
Il riferimento fatto dall’autore alle leggi emanate dalle capitali dell’Europa occidentale come garanzia implicita di pace e di giustizia – simbolo di una moralità superiore rispetto alle barbarie e all’anarchia africana – fa davvero impressione. De Santoli ci delizia con una spruzzatina di Rudyard Kipling stile “Il fardello dell’uomo bianco”: la sacra missione civilizzatrice assegnata ai popoli europei. O al meglio, più divertente, con una retorica da Fascisti su Marte stile Corrado Guzzanti.
Certo, come ricorda correttamente Furore, alcune malattie in Africa furono debellate dal colonialismo. Certo, le leggi coloniali diedero “ordine”. Ma si trattava di un ordine imposto dalla madrepatria senza alcuna conoscenza della realtà africana. L’autore dimentica che molti dei conflitti etnici che oggi popolano il continente africano sono il frutto avvelenato delle spartizioni territoriali fatte a tavolino dai “nobili” colonizzatori. Spartizioni che introdussero confini artificiali tra etnie e popolazioni da secoli abitutate a vivere nelle stesse terre. Famiglie e comunità che si scoprirono divise tra i possidimenti francesi e quelli inglesi. Ma la vera missione civilizzatrice viene omessa dal De Santoli, ovvero l’uso massiccio e sistematico della violenza, la vera legge fondamentale del colonialismo europeo. Un “dettaglio” che l’autore dell’articolo non sente neanche il dovere di citare sommariamente. Niente sui massacri perpetrati dagli inglesi in Kenya, quelli dai francesi in Algeria, dai belgi in Congo. Neppure una parola sulle repressioni sanguinarie orchestrate dagli “Italiani brava gente” per stabilizzare le conquiste della Libia, della Somalia, dell’Eritrea e dell’Etiopia. Conquiste ottenute – è il caso di Libia ed Etiopia – usando gas e armi chimiche contro popolazioni inermi. Atti e gesti che oggi verrebbero qualficati come genocidio (si suggerisce, in proposito, una lettura dei documentatissimi volumi di Angelo Del Boca).
Caro Direttore, la provocazione è parte integrante della libertà di pensiero e di scrittura. Siamo con Voltaire. Rimaniamo convinti della necessità di dare la vita affinché anche i pensieri meno condivisi o più discutibili trovino forme, spazi e modi per esprimersi. E la Voce compie una nobile missione quotidinana nel garantire la diversità delle opinioni. Tuttavia, giocare con la storia, occultando fatti, dati e realtà piuttosto inconfutabili, ci pare un affronto alla Voce di New York ed un servizio poco serio ai nostri lettori. Questo è quello che sembra abbia fatto il De Santoli nella sua rubrica del 22 marzo. Consigliamo dunque all’autore di Furore di scendere da Marte e confrontare, con pazienza, le sue certezze inossidabili con un mondo che sembra ignorare. Lo aiuterà ad avere qualche dubbio in più.
Un caro saluto da Addis Abeba.
Risposta del Direttore
Pensiamo che anche questa critica di un columnist nei confronti di un altro columnist sia nello spirito di questo giornale. Abbiamo qualcosa da dire su questo passaggio: "Tuttavia, giocare con la storia, occultando fatti, dati e realtà piuttosto inconfutabili, ci pare un affronto alla Voce di New York ed un servizio poco serio ai nostri lettori."
Non è mai poco serio dare spazio a delle opinioni, semmai poco serio sarebbe basare la propria opinione solo sulle opinioni altrui senza mai verificare i fatti da cui quelle opinioni si originano. Certi che i nostri lettori non appartengano alla categoria dei tifosi (a meno che non si parli di sport), non siamo preoccupati di dare spazio a voci diverse. Sappiamo che chi legge la VOCE sa distinguere i fatti dalle opinioni e costruirsi a sua volta una sua propria opinione.
SV