“Non potranno non intervenire dopo aver visto le vostre immagini”. “Sai cosa succederà? Semplicemente le persone diranno -oh mio dio, è orribile- e poi continueranno la loro cena”. Sono passati vent’anni dal genocidio ruandese, eppure questo dialogo, tratto dall’agghiacciante film-verità “Hotel Rwanda” tra un giornalista straniero e il direttore d’albergo protagonista della pellicola, potrebbe essere ancora oggi applicato ai tanti drammi dimenticati in giro per il mondo.
In questi giorni, da Kigali si leva il grido “Mai più!”, eppure sembra che per l’ennesima volta la storia non ci abbia insegnato niente. Guardando alla Repubblica Centrafricana o alla Siria vengono subito alla mente alcune parole pensando alla famigerata Comunità internazionale: vergogna, ignavia, codardia, paura nell’intervenire. Ma c’è anche dell’altro: interessi, strategia, profitto. Già, perché dove c’è il coltan o i diamanti o il petrolio o ancora magari uno spazio aereo o un porto strategicamente utile, molto spesso c’è la guerra, l’anarchia, la morte. Vengono fomentati odi etnici o religiosi studiati a tavolino. Vengono armate milizie ben conosciute per le continue violazioni dei diritti fondamentali dell’uomo. O ancora, vengono scatenate guerre asimmetriche combattute per interesse altrui. E l’intervento internazionale, quando c’è, è legato a zone e a interessi specifici.
Quello che fa più male, oltre al silenzio e al dramma di massacri che non “bucano” in tv, che non fanno effetto e che quindi diventano crisi dimenticate, è l’ipocrisia del mondo occidentale, quel mondo fatto di grandi potenze che si siedono intorno a un tavolo e prendono decisioni che, a cascata, colpiscono tutto il globo. Quel mondo che resta a guardare “sull’orla della fossa seduto”, come intonato in una canzone per i martiri dell’Ungheria nel 1956. Quel mondo che torna indietro nel tempo, a relazioni diplomatiche muscolari e non più multilaterali. Quel mondo che si incontra per i colloqui di pace, ma intanto continua a vendere armi alle fazioni sul terreno. Quel mondo che preferisce l’anarchia e la morte per portare meglio a termine i propri affari.
E ancora, quel mondo che è pronto giustamente a piangere nel ricordo del genocidio ruandese, ma poi rimane colpevolmente fermo davanti ai massacri in Repubblica Centrafricana o in Siria. Ma d’altra parte, come stupirsi? A distanza di vent’anni ci sono ancora crisi diplomatiche che portano la Francia a disdire la partecipazione a Kigali per ricordare il genocidio. O ci sono ancora responsabili del genocidio a piede libero. Oppure, ci sono potenze che si combattono in Africa come in Vicino Oriente indirettamente, armando le “proprie” fazioni. Già, tutto questo avviene in un mondo che si fa bello della pacificazione post seconda guerra mondiale e che si vanta dei suoi altissimi valori. Un mondo dove quasi dieci milioni di siriani, tra sfollati interni e profughi, non fanno più notizia e dove il Continente africano viene visto come endemicamente preda di guerre e fame, un po’ come se non ci fosse un altro modo per vivere da quelle parti.
Forse bisognerebbe partire da un racconto diverso di tutto questo e da una denuncia più dura di quello che viene permesso in giro per il mondo. Ci vorrebbe prima di tutto tanto coraggio, anche nei media internazionali. Un coraggio che troppe volte sembra non esistere, visto che gli esteri, le crisi, la morte alla fine non fanno share come un programma di intrattenimento qualunque.
Serve un cambio culturale a 360 gradi, altrimenti la situazione potrà solo che
peggiorare: l’assuefazione al dramma sarà completa e certe immagini diventeranno un abitudine nel pensare ad alcune zone della Terra. Forse sarebbe stato bello vedere “Hotel Rwanda” in prima serata in questi giorni. Magari con un programma di approfondimento prima e dopo il film. Ma no, è chiaro, non era possibile: la pellicola è troppo dura e cruda, non avrebbe fatto tanto ascolto. E poi, il mondo occidentale si sarebbe dovuto vergognare un’altra volta. Troppo per una prima serata televisiva.
Twitter: @TDellaLonga