“Non si viene a Roma senza un’idea universale”, disse qualcuno tanti, tanti anni fa. Giusto. Roma è l’universalità: senza Roma, il Cristianesimo forse sarebbe rimasto confinato in Palestina come una setta “qualsiasi”. “Tutti noi veniamo da Roma”, mi disse, oltre quarant’anni fa, a Londra, un dottor Beatley, anglosassone, medico chirurgo.
Ora a Roma è arrivato il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Ma ci si è presentato con “un’idea universale” il Capo della Casa Bianca? Ha quest’uomo, peraltro gradevole, sincero, l’esatta visione di ciò che bisogna fare per riportare in Occidente, e nel resto del mondo, un po’ di ordine, di equilibrio, di stabilità? Ci riferiamo all’ordine, all’equilibrio, alla stabilità da garantire e tutelare col consenso generale, con forme di governo sganciate dall’avidità, dalla corruttela, dall’individualismo, dall’egocentrismo: da tutti i vizi che da una ventina d’anni avvelenano l’Italia e non solo l’Italia. Ci riferiamo a un “ordine” che nasca, come direbbero gli inglesi, dal “common purpose”. Senza il “common purpose” si piomba nella rovina e su questa china l’Italia, e non solo l’Italia, scivola con una velocità raccapricciante.
Alcuni ci vengono a dire che la globalizzazione è rappresentazione dell’universalità. Nossignori: la globalizzazione è l’assassina dell’universalità. È la stritolatrice, perversa, di quanto di più splendido è stato realizzato in Occidente a partire dai tempi delle Signorie, dei Comuni, della Mezzadria. È l’annientatrice di ogni impulso creativo. È la nemica, spietata, dell’individuo. È il tenace “masterminder” che pone le genti al proprio servizio, quando dovrebbe essere magari il contrario. È un’apparecchiatura ingorda che divora addirittura se stessa per poi rigenerarsi più brutale, ma anche più ‘sofisticata’, che mai. Sulla base delle sciagurate agevolazioni a essa elargite in questi ultimi venti o venticinque anni da governi e parlamenti intossicati da una superficialità e da un’ignoranza senza precedenti nella Storia, ha saputo sviluppare un intuito grazie al quale domina mezzo mondo e, forse, anche qualcosa di più. Non solo: con la globalizzazione (creatura ‘magnifica’ secondo i masochisti di varie nazionalità…) è avvenuto l’opposto di quello in cui speravano, appunto, i superficiali, gli “ottimisti”, quelli che cadono sempre in piedi: dilagano la fame, la miseria, l’abbrutimento; si è tornati allo sfruttamento del lavoro minorile, specie in Cina, in India e anche altrove. Sulla Terra è tornata una mostruosità che avevamo saputo debellare in un passato ormai non recente: la schiavitù.
Tutto questo è ben presente nella mente, nel cuore di Papa Francesco, incontratosi stamani in Vaticano con Barack Obama in un’atmosfera di grande cordialità e con tanto di sfoggio d’umiltà da parte del Presidente degli Stati Uniti. Il comportamento del Capo della Casa Bianca col Vescovo di Roma è stato, sissignori, toccante. Ma state pur tranquilli che nei cinquanta minuti di colloquio, Papa Francesco all’ospite giunto da Washington avrà ricordato l’esigenza di una lotta a fondo, articolata, codificata, contro la povertà che avanza in mezzo mondo e stringe nella propria morsa anche Stati Uniti e Europa. Gli avrà ricordato che servono i fatti, che le parole, oggi più che mai, non solo lasciano il tempo che trovano (questo sarebbe il meno), ma fanno perdere tempo, fanno perdere tempo prezioso mentre l’Occidente più tanto tempo non ha. Sono espressione di criminosa indifferenza verso gli “have nots”; verso, insomma, quanti da sé non ce la fanno proprio ma, a differenza di quanto poteva accadere mezzo secolo fa, non trovano più un aiuto, un soccorso che non sia tuttavia carità; che sia, invece, il risultato dello Stato Sociale che la globalizzazione sta demolendo.
Papa Francesco a Roma c’è arrivato, eccome, con un’"idea universale". A Francesco la globalizzazione non piace. Questo è apparso chiaro fino dall’inizio. Il Vescovo di Roma ben sa che la globalizzazione, sissignori, è la sotterratrice dell’universalità, la becchina della civiltà; la riesumatrice di pratiche abominevoli come, appunto, il servaggio, la schiavitù contro cui non si sono argini. Non possono essercene finché avremo governi deboli; governi miopi; parlamenti in gran parte dominati da individui di crassa ignoranza. Finché, a Roma come altrove, ci troveremo schiacciati da apparati politici, e imprenditoriali, secondo i quali tutto è inevitabile… Inevitabile la globalizzazione, inevitabile l’abbattimento di confini e frontiere; inevitabili, quindi, i movimenti di masse umane da un Paese all’altro, da un Continente all’altro. È comodo invocare l’“inevitabilità” delle cose… È comodissimo non calcolare le eventualità che andrebbero invece tenute in considerazione nel giusto rispetto di un fenomeno chiamato “unintended consequences”.
Per Papa Francesco scommettiamo che di inevitabile nulla c’è. E vuoi vedere che questo lui lo ha ricordato all’augusto presidente degli Stati Uniti d’America. Come gli avrà fatto “anche” notare, chissà, che la pena di morte nella molto cristiana America, cristiana proprio non è… Poi, naturalmente, avrà smesso di “infierire”…
Francesco, lo si è visto, ha fatto un grosso effetto a Barack Obama. A tratti abbiamo scorto l’aria dello “schoolboy” nei modi, nella maniera di porgersi dell’uomo più potente della Terra al cospetto d’un gigante che vorrebbe essere ascoltato, ascoltato sul serio, un poco di più.
La visita di Barack Obama a Roma, nella Roma che, stavolta, e soprattutto per via dell’incontro con Francesco, deve aver davvero smosso qualcosa in lui, deve averlo sollecitato a riflessioni per le quali non ha magari tempo a Washington o in altre Capitali. Un segno, la Roma di Francesco deve averlo lasciato in lui. La spiritualità e la concretezza di questo Papa devono averlo raggiunto, devono aver abbracciato le corde del suo sentimento di uomo prima ancora che di Capo di Stato. C’è sempre lirismo nelle parole, nel tono, nell’atteggiamento di Francesco. Ma è il lirismo sincero, asciutto, non certo di facciata. È il canto d’un sacerdote che si fa davvero carico delle pene umane, delle crescenti, spaventose ingiustizie umane.
Vogliamo perciò sperare che dal Vaticano, il presidente americano sia uscito nella convinzione che si può, sissignori, “fare di più” e che è delittuoso arrendersi alla cosiddetta “inevitabilità” delle cose.
Obama s’è poi incontrato col presidente della Repubblica italiana Napolitano e col presidente del Consiglio italiano Renzi. Ma questi sono dettagli. Questa è “passerella”, è mondanità. E avremmo voluto vedere un po' meno sorrisi… I reiterati sorrisi dei potenti sono stilettate al cuore dei tanti per i quali oggigiorno la vita è un calvario.
Discussion about this post