Si chiama Ferite a morte, è un libro sulla violenza contro le donne, scritto da Serena Dandini, uno dei volti più noti della televisione italiana (specie di un certo tipo di televisione, non troppo conformista, non troppo accondiscendente con il potere) in collaborazione con Maura Misiti, ricercatrice del Cnr. Ma è anche un reading, nonché uno spettacolo teatrale, che ha esordito a Palermo esattamente un anno fa e che ora sta girando l'Italia (con frequenti incursioni all'estero). Il reading approderà al Palazzo di vetro delle Nazioni Unite, a New York, il prossimo 25 novembre, in occasione della giornata internazionale della violenza contro le donne. Qualche giorno prima, il 19, sarà invece a Washington su invito dell'Osa, l'Organizzazione degli Stati Americani, in occasione della convention che vedrà insieme tutti i ministri delle Pari opportunità dei 34 paesi membri.
All'origine vi è un lavoro di riscrittura: la Dandini, infatti, è partita da storie di cronaca, storie reali, insomma, storie di donne uccise, spesso per mano di mariti, fidanzati, familiari, ovvero di persone che le vittime dicevano di amarle. Delitti quasi sempre annunciati, perché preceduti da violenze, minacce, maltrattamenti. Nella riscrittura teatrale – sempre in forma di monologo, un po' sulla falsariga de L'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters – spesso le donne si chiedono: perché? Perché mi sono comportata in un certo modo, ad esempio (un modo che a volte sconfina nell'ingenuità, nell'eccesso di fiducia, di comprensione, quell'accettare "l'ultimo appuntamento", che si rivela fatale, quel non avere cambiato la serratura di casa dopo la separazione…). Ma anche: perché l'hanno lasciato fare, perché le cose sono andate a finire così, anche se era chiaro, quello che stava per accadere?

Un momento del reading a Trento
Molte delle storie narrate sono storie italiane, anche se potrebbero essere ambientate un po' ovunque. Ma lo sguardo viene lanciato anche al di fuori dei nostri confini. Così, ad esempio, una ragazzina africana cresciuta in Italia scrive alla sua compagna di scuola che sta per visitare il suo paese di origine, il Mali, per la prima volta, e racconta che lì dovrà fare anche un piccolo "rito", che consente alle ragazze di essere considerate realmente donne, ma nulla di preoccupante, presto sarà di ritorno e le racconterà tutto. Se non che, purtroppo, non torna: l'infibulazione è andata male, la nonna ormai ha la mano che trema, e così la ragazzina è morta dissanguata.
Serena Dandini, 59 anni e alle spalle, fra l'altro, il primo show interamente femminile della tv italiana, La tv delle ragazze (1988), in questa prova di scrittura e di regia teatrale non ha rinunciato al tocco graffiante che ha sempre caratterizzato le sue produzioni (leggi la nostra intervista alla conduttrice e autrice). I monologhi contenuti in Ferite a morte parlano sempre, sì, di femminicidio, ma lo fanno alternando sapientemente il registro drammatico con quello ironico (non, però, grottesco, che è spesso la "via di fuga" maestra quando si maneggia del materiale emotivamente così forte). Il pubblico, sulle prime, può restare spiazzato: siamo abituati a vittime dalla voce dolente, o accusatoria, meno, molto meno, a vittime capaci di ridere, anche se amaramente, del proprio destino. E poi, quando ci si lascia andare, quando si comincia a acquistare familiarità con queste voci, arriva qualcosa che riporta brutalmente al dato di realtà: queste donne sono state uccise, sono state uccise da chi avrebbe dovuto amarle, sono state uccise spesso per motivi futili, per niente, posto che comunque non esiste motivo sufficientemente serio per uccidere. In Italia, solo quest'anno, sono già più di cento. La legge nazionale sul femminicidio che è stata appena varata (con la conversione del decreto legge 93 del 14 agosto scorso) rappresenta un passo avanti, ma sarà sufficiente?