Scappare da guerra, fame, carestie, stupri etnici, violenza diffusa può ancora costare la propria vita. Nell'anno domini 2013, nelle coste di quell'Europa insignita del premio nobel per la pace, in quel mare nostrum dove l'Italia è il ponte naturale del dialogo tra civiltà, si muore. Ancora. Nonostante i radar di ultimo modello, i satelliti controllori, il traffico militare e mercantile e la tanto decantata civiltà europea. Così, nel pieno dell'estate, mentre le spiagge del sud Italia sono nei sogni dei vacanzieri, in migliaia cercano un approdo sicuro in Sicilia, Calabria, Puglia, ma anche a Malta, in Grecia e Spagna. Mentre si moltiplicano gli sbarchi, mentre migliaia di persone, uomini e donne, scappano dalla guerra in Siria o dalla violenza etnica del Corno d'Africa oppure dalle violenze diffuse in Egitto, si sente parlare di “immigrazione” solo quando il mare ci restituisce dei corpi senza vita, come successo tragicamente pochi giorni fa a Catania. Sei giovani ragazzi egiziani, morti negli ultimi metri d'acqua prima della spiaggia. O come successo nei pressi di Lampedusa altre volte. O come troppe volte è stato raccontato di migranti morti durante il viaggio, in un mar Mediterraneo che continua a essere un grande, grandissimo cimitero piene di vittime senza nome.
Di tutto questo però praticamente non si parla. L'immigrazione e le sue tragedie sono in molti casi una notizia di sfondo, quasi qualcosa a cui siamo talmente abituati da non farci caso, in tanti altri un territorio di scontro politico.
Come successo pochi giorni fa, quando il governo maltese, per l'ennesima volta, ha bloccato una nave con più di 100 migranti, sbarrandole il passo al limite delle acque territoriali. E per l'ennesima volta è dovuta intervenire l'Italia, accogliendo delle persone che cercavano solamente un approdo sicuro.
E' incredibile e a tratti frustrante leggere storie di questo tipo. Invece di accogliere, invece di guadagnarsi sul campo il nobel per la pace, invece di garantire una porta sempre aperta per chi scappa, l'Europa si spacca in tanti rivoli. Con l'opinione pubblica che si occupa del fatto di cronaca in sé, senza guardare oltre. Forse ci sarebbe bisogno di tutt'altro. Di una nuova politica di accoglienza europea, di una rinnovata attenzione all'altro, a chi è diverso di noi, senza paura e senza pregiudizi ideologici. Ma anche di un'attenzione particolare da parte dei media nell'utilizzare termini tanto diversi tra di loro, (migrante-immigrato-clandestino-rifugiato non sono sinonimi), e soprattutto un modo diverso di raccontare chi sono queste persone, da cosa scappano, cosa cercano. In poche parole serve più approfondimento, più riflessione, più analisi, nella politica come nei media. Perchè le storie delle persone sono importanti, sono storie che compongono una grande epopea. E nessuno dovrebbe più voltarsi dall'altra parte.
E' inutile commuoversi davanti alla giovane mamma somala con il neonato di 8 mesi, se non si comprende cosa significa scappare dagli Shabab. O senza interrogarsi su quanto debba essere doloroso per intere famiglie lasciare la propria terra, come nel caso della Siria, per fuggire da bombardamenti continui e anarchia diffusa. Basterebbe partire dalla saggezza popolare dei pescatori lampedusani: la legge del mare lo impone, se qualcuno è in pericolo, va aiutato. O più semplicemente dalla nostra storia fatta di accoglienza e rispetto fin dai tempi dell'antica Roma, città fondata da migranti (di Troia) scappati da una guerra.
Twitter: @TDellaLonga
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