Sono passati 33 anni da quel 2 agosto del 1980, quando alle 10.25 del mattino una bomba esplodeva alla stazione centrale di Bologna, uccidendo 85 persone, mutilandone altre 200 e lasciandone altre centinaia tra dolore, fuoco e macerie.
Una valigia apparentemente innocua abbandonata in una sala d’attesa, questo il subdolo e codardo mezzo col quale gli attentatori trasformarono in un inferno un luogo solo poco prima gremito di attese, di speranze, di vita.
Il bagaglio, infatti, conteneva esplosivo in quantità sufficiente da far saltare in aria tutta l’ala ovest della stazione ferroviaria, colpendo anche un treno.
Bologna in quell’istante si fermò. Come quell’orologio rinvenuto tra le macerie e bloccato in quel tragico nero secondo che squarciò proprio nel cuore del suo maggiore nodo di scambio una città da sempre ritenuta democratica, accogliente e aperta. Quegli attimi parteciparono a scrivere la pagina più nera della storia d’Italia. La pagina del terrorismo, degli attentati e della violenza. La pagina del gioco dei poteri forti, dei fili mossi da personaggi più o meno occulti che troppo spesso hanno usato come pedine le vite degli innocenti.
La città si fermò, e i bolognesi accorsero. In pochi minuti la stazione fu gremita da cittadini venuti a prestare soccorso, mostrando tutta quell’umanità che di certo è mancata a chi lasciò quella valigia, ma anche a tutta una classe politica che ancora oggi, oltre trent’anni dopo, non dà risposte valide e giustizia alle vittime e ai loro parenti.
Macerie su macerie, cadaveri e corpi mutilati, autobus e taxi che venivano utilizzati come ambulanze per trasportare i troppi feriti. Fu da subito ovvio che si trattava di qualcosa di enormemente serio, eppure ci volle del tempo perché si parlasse di crimine. Inizialmente l'allora presidente del Consiglio Francesco Cossiga sostenne l’ipotesi della causa fortuita, imputando un tale disastro allo scoppio di una caldaia. Alla fine i rilievi e le testimonianze dimostrarono che non si trattava affatto di un incidente, ma di un atto terroristico, che a quanto pare qualcuno avrebbe preferito insabbiare fin da subito.
Così la strage di Bologna rientrò nella “strategia della tensione”, perdendosi tra le pagine di quegli anni italiani in cui terrorismo, mafie, massoneria e servizi segreti sembrava collaborassero tra loro per depistare e confondere, mietendo come ultima delle tante vittime, la verità.
E proprio depistaggi, mezze verità e false piste fanno da sfondo a questa tragedia, come purtroppo spesso accade nelle più tristi ferite italiane. Numerosi furono i tentativi di depistaggio, per i quali successivamente fu condannato anche Licio Gelli, nome noto nella storia occulta italiana.
Ai tempi la pista più credibile fu ritenuta quella del terrorismo nero e una trentina di militanti di estrema destra vennero arrestati circa un mese dopo la strage, per poi essere liberati un anno dopo. Nel 1995 le manette scattarono per Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, due militanti di estrema destra condannati all’ergastolo. Fioravanti e Mambro si sono sempre dichiarati innocenti, e sembra che anni dopo anche Francesco Cossiga si sia fatto venire qualche dubbio al riguardo, dicendosi non più tanto convinto della colpevolezza della destra. E via allora con un variopinto carosello di innumerevoli ipotesi su presunti colpevoli nazionali e internazionali, che come un intricato labirinto di strade senza uscita ha ingabbiato e sepolto la verità.
Oggi in stazione a Bologna resta ancora quell’orologio fermo alle 10.25 e uno spacco nel muro coi nomi delle vittime, che simboleggia quella ferita mai rimarginata. E ancora oggi, dopo 33 anni, ricordando quel triste sabato mattina, i parenti delle vittime chiedono verità, perché non hanno mai smesso di cercarla e non si arrendono. Grazie alla loro tenacia nuove indagini e nuovi arresti sono stati effettuati, purtroppo senza mai arrivare a quei mandanti codardi tanto ben nascosti da chi non vuole che nomi troppo importanti e compromettenti emergano.