Molto è cambiato in Italia da una ventina di anni a questa parte. Molto è cambiato dalla scomparsa delle ideologie e dalla consegna della Nazione nelle mani dell’asse politica-affarismo. Bassa politica. Affarismo bieco, sissignori, bieco, avete letto bene. Le cose del resto vanno chiamate col loro nome. “Call a spade a spade”, dicono gli Inglesi.
Così, è cambiato “anche” il giornalismo italiano. Oddio, sono tuttora in circolazione giornalisti di alto valore, donne e uomini di notevole acume, di profonda curiosità intellettuale; preparati anche sul piano del linguaggio, sul piano quindi della lingua italiana, che è lingua complessa, difficile. E’ arduo diventarne veramente padroni. Ma i “pezzi” (gli articoli) di numerosi nostri colleghi scorrono, scorrono bene. Si “fanno” leggere. Insegnano qualcosa. Suonano l’allarme… Mettono in guardia. Tuttavia, è cambiato il clima. E’ mutato il rapporto giornalisti-editore; in tanti, troppi, casi, il rapporto giornale-lettori, il rapporto giornalismo televisivo-lettori. Vediamo di spiegarci nel modo più chiaro e più semplice possibile.
L’Editore oggigiorno dilaga. Ti fa sgobbare come si sgobbava su una triremi, e a fine mese ti “regala” 800 euro. E devi essergli perfino grato! L’Editore fa il bello e il cattivo tempo. L’Editore non ammette dissenso. Crede d’essere egli stesso “un bravo giornalista”. Invece, non lo è. Non può esserlo. E’ un uomo d’affari, un industriale, un “palazzinaro”, il quale magari ha difficoltà a collocare Bismarck nel preciso periodo storico di Bismarck e nulla sa del Sindacalismo nazionale italiano degli Anni Dieci, come nulla sa del rilancio dell’edilizia popolare attuato in Italia a partire dal 1948-1949 da Amintore Fanfani, già “gigante” della Democrazia Cristiana, Ministro nel Governo De Gasperi. In vari casi oggigiorno il “nostro” editore è colluso con la politica. La politica, la bassa politica, fa un favore a lui, lui fa un favore a lei. I giornalisti sono “pregati” di rigar dritto. Pena, essere messi alla porta in un battibaleno. In vari giornali era così anche 50-60 anni fa, ma in molti altri si suonava una musica ben diversa. Il Giornalista degli Anni Sessanta e Settanta per competenza, rigore, ampiezza culturale aveva raggiunto una posizione inattaccabile. Era sparito il giornalista individualista, s’era formata la “collettività” giornalistica. La quale poneva limiti all’azione dell’editore, all’azione del padrone. Il padrone dal canto suo accettava tutto questo di buon grado. Gli interessava vendere il più possibile ed era perciò ben felice di aver sul libro paga giornalisti che il proprio mestiere lo sapevano svolgere con maestria e sapevano quindi sollevare problemi morali, problemi sociali.
L’Editore – raccontava una ventina di anni fa Indro Montanelli, giornalista di razza – al giornale si faceva vedere “soltanto” una volta all’anno, alla vigilia di Natale, per raccattare i quattrini che gli spettavano. L’Editore capiva di doversi far vedere “una sola volta” all’anno. Capiva di non dover essere d’impaccio… Intanto, il suo giornale vendeva! Tutti contenti, quindi, da lui fino al redattore ordinario, fino al linotipista più anziano, e esigente. Da giovane feci l’apprendista alla “Nazione” di Firenze, nel periodo a cavallo degli Anni Sessanta e Settanta. Mi recavo ogni giorno nella redazione sport della “Nazione”, vigilia di Natale e Primo dell’Anno compresi. Proprietario del quotidiano fondato nel 1859 da Bettino Ricasoli, a quell’epoca era Attilio Monti, romagnolo, petroliere, padrone di zuccherifici, a suo tempo autista e prestanome di Ettore Muti, anch’egli romagnolo, asso dell’Aeronautica italiana, “fascista di ferro” fatto uccidere dai badogliani nell’agosto del 1943, nel suo villino a Fregene. Ebbene, nei miei cinque anni (1969-1974) trascorsi alla “Nazione”, al giornale Attilio Monti non lo vidi una sola volta. Né mai sentii dire che il Cavaliere del Lavoro fosse passato poco prima di lì. Certo che nel giugno del 1970 il Cavalier Monti pose il direttore del giornale, Enrico Mattei, nella condizione di dare le dimissioni. Mattei aveva dichiarato guerra, guerra “senza quartiere”, al Centrosinistra, e questo in una città, appunto, “rossa” come lo era la Firenze d’allora. Monti voleva vendere più copie possibile, i suoi giornalisti (quasi tutti schierati col Centrosinistra) gli dettero il prezioso aiuto che lui cercava. Amministrata dal vecchio, e sagace, Dr Formigli, “La Nazione” si trovava brillantemente in attivo, ma si sapeva che ci voleva ben poco per scendere “in rosso”. All’orizzonte già si profilava “la Repubblica” mentre “l’Unità” e “Paese Sera” raddoppiavano gli sforzi. La “guerra” si faceva difficile!
L’Editore d’una volta voleva al proprio servizio giornalisti la cui mente fosse sgombra da pensieri, preoccupazioni, ambasce. Ben sapeva che il giornalista ben pagato, e ben tutelato, rendeva, rendeva assai. Anziché impigrirsi, ci dava dentro con lena ancora maggiore. Era “Il Giornalista” (davvero in gamba) che scavava, non faceva che scavare, e spesso con risultati eccellenti. Ecco che le vendite aumentavano!
L’Editore d’una volta ci teneva che i suoi giornalisti in trasferta alloggiassero nei migliori alberghi, era “anche” una questione di prestigio! Arturo Michelini, Segretario nazionale del Movimento Sociale Italiano e perciò padrone del “Secolo d’Italia”, fino all’anno della sua morte, il 1969, la pensava anche lui allo stesso modo. A Venezia i suoi inviati alloggiavano al “Danieli”: a Firenze, al “Baglioni”.
La selezione era durissima. Per diventare “praticante”, e ottenere quindi un primo contratto in attesa d’essere ammesso all’Esame di Stato in base al quale venivi giudicato idoneo, o meno, all’investitura del titolo di “giornalista professionista”, già dovevi dimostrare di possedere la memoria di Pico della Mirandola, d’avere un bel po’ di pelo sul cuore (necessario per chiedere ai genitori del ragazzo morto un’ora prima in un incidente stradale una foto del figliolo scattata in tempi davvero felici!); d’essere fornito di un’intelligenza superiore alla media – e d’essere in grado di scrivere in meno di un’ora 60 righe “esemplari”. Soprattutto, dovevi presentarti come formidabile raccoglitore di notizie. Se risultava che non avevi le doti del “formidabile raccoglitore di notizie”, ricevevi il consiglio di trovarti un altro mestiere… Eri finito.
Oggi, notizie non se ne cercano più. Ci sono le agenzie di stampa. Ci sono i comunicati degli uffici-stampa. Oggi ci si appiattisce dinanzi al Potente che degna della propria presenza. Si cede alla tentazione di compiacere il Potente. L’antica “gavetta” è sparita. Specie alla tv c’imbattiamo in “ragazzotti” e “ragazzotte” che ci riferiscono (…) di riunioni governative o riunioni di partito, e di giorno in giorno il televisore ci presenta “anchor-men” o “anchor-women” sotto i 35 anni, o anche sotto i 30, vestite, vestiti a festa; “impostati”, “ingessati”, così pieni si sé, così compiaciuti che ti viene la nausea. La loro dizione è pessima. Il loro senso critico (quello dei Montanelli, dei Buzzati, dei Dall’Ongaro), inesistente. Sono campioni e campionesse della piaggeria, a noi sconosciuta (credete!) 40 o 50 anni fa. “Buon lavoro, Onorevole”! “Grazie, Senatore, per il tempo che ha voluto dedicarci”… “Tanti auguri, Direttore”! E via così. In questo “canovaccio” che rattrista, scoraggia, indigna. In questa “fiera” italiana alimentata da simpatie o da antipatie. In quest’Italia in cui oramai nessuno – salvo pochi, pochissimi spiriti – prende le difese dei poveri, degli emarginati. Degli “esodati”… Conta solo il riflettore. Conta il lustrino. Conta la “strepitosa” vacanza a Taormina, al Giglio, a Punta Ala. Conta il favore, sì, del Potente. Questa, la “gratificazione”.