È in corso la bagarre elettorale mentre a preoccupare la gente sono i temi dell’economia. Imprese e famiglie temono i rincari. I costi dell’energia continuano a correre e con essi quelli delle materie prime, al punto che l’inflazione ha raggiunto 8%. Luce e gas potrebbero essere razionati. Lo scenario è preoccupante per l’impennata delle bollette e l’aumento della spesa dei singoli. Le imprese e gli esercizi commerciali hanno bisogno di volumi enormi di elettricità e gas e sono a rischio. Secondo Confcommercio, il terziario dovrà sostenere una spesa per l’energia di 33 miliardi, il triplo rispetto al 2021. Potrebbero chiudere 120 mila imprese, 270 mila i posti di lavoro in pericolo.
Per la gente non è facile orientarsi. È prevedibile un forte astensionismo, secondo la tendenza degli ultimi anni. La rinuncia al voto è un fenomeno complesso, con un’implicazione destabilizzante per il sistema: la cosa pubblica non può essere amministrata nella sfiducia popolare. Le proposte politiche provocano disorientamento e un diffuso pessimismo. Nella decisione di non andare a votare si mescolano consapevolezza e qualunquismo, disillusione e pregiudizio. L’opinione pubblica formula alla fine un giudizio di omologazione, che non fa distinzioni: sono tutti uguali, non cambia nulla.
Gli orientamenti tradizionali hanno perso radicamento con la crisi delle ideologie. L’elettorato è fluttuante e liquido, anche privo di motivazioni consolidate. Mancano ancoraggi ideali che permettano comunque di definire gli orizzonti. Il pragmatismo diventa incertezza e perdita di spessore. Prevale, quando c’è, la scelta fatta all’ultimo e caso per caso, sulla base di suggestioni e richiami emotivi. La gara è giocata sul basso profilo, senza guardare alla qualità delle proposte.

Nella perdita di orientamenti “predefiniti” è allarmante non tanto la rescissione dei legami tradizionali con i partiti (un bene che il voto sia “aperto”), ma la pericolosa oscillazione tra riformismo e conservazione, tra sinistra e destra (almeno quando è ancora attuale simile classificazione).
Prevalgono, nella destra che avverte il profumo di vittoria, proposte regressive, quando non eccentriche o stravaganti, senza respiro e fondamento, buone per animare i talk show e destinate a tramontare in breve. Dalla flax tax (avvantaggia i grandi redditi e penalizza quelli bassi) al blocco navale contro gli immigrati (li prendiamo a cannonate?), ai decreti sicurezza, alla castrazione chimica dei violenti, al cimitero dei feti abortiti, a pensate giudiziarie come l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, all’invito a copiare legislazioni familiari notoriamente progredite come quelle dell’Ungheria di Orban. È il ritorno del vecchio, dell’impresentabile. È quanto però attraversa i programmi della destra.
Queste tendenze potrebbero essere amplificate dagli effetti del disordine provocato dall’infausta riduzione numerica dei parlamentari, voluta dai 5Stelle, improvvidamente accettata dalla sinistra come merce di scambio di una duratura alleanza di governo. Non sono stati introdotti correttivi nella normativa costituzionale, la legge elettorale è rimasta la stessa. La riforma ha creato collegi senatoriali immensi (anche un milione di persone), nei quali è impossibile un rapporto diretto candidato-elettore. La contraddittorietà del sistema elettorale (né integralmente maggioritario né proporzionale) amplifica i difetti delle due opzioni. Ovviamente non c’è stata alcuna alleanza politica di lungo termine tra Pd e 5Stelle.
A parte i difetti della normativa elettorale, ciascuno ci mette del suo per aggravare le cose. Ci si lamenta che “il sistema” costringa ad allearsi senza convinzione, per spuntare una rappresentanza. Infatti è una lotta di schieramenti, vince chi prende un voto in più, dunque bisogna unirsi anche solo per fare numero, non importa essere d’accordo, e poi c’è la tagliola del 3% da superare in ogni caso per entrare in gioco, un vero spauracchio in un contesto tanto frantumato.

Tutto esatto, ma nulla lo impone per forza. Quasi che si debbano comunque costruire alleanze strumentali e provvisorie, piuttosto che sostenere lo sforzo di costruire intese di largo respiro. La fragilità di simili impostazioni la si è vista nel carattere effimero dell’alleanza tra Pd e il centro di Calenda. Il tempo di un voltafaccia di quest’ultimo, seguendo umori e calcoli.
È principalmente nostra la responsabilità se le elezioni non servono a scegliere un personale politico adeguato e preparato. Difficile lamentarsi se alla fine il potere pubblico è falsato, quasi inesistente, e la sua costruzione diventa una truffa ai danni dei cittadini.
Cosa impedisce di contrastare il pessimismo? Verrebbe da chiederselo. L’idea che gli accordi debbano essere necessariamente strumentali, di scarso spessore, buoni solo per superare il momento, per quanto anche esatta, per quanto diffusa e radicata, è perdente, e pure rinunciataria.
A ben vedere quello solidale e includente è l’orientamento intrinsecamente democratico-progressista, ben diverso dall’atteggiamento che caratterizza la destra, anche in Italia. Qui la destra in pericolosa ascesa è intrinsecamente massimalista e “verticale”, cioè sogna una società verticistica nelle modalità di governo e nella postura mentale davanti ai problemi.

Un atteggiamento fortemente competitivo caratterizza i partiti di destra (lo si vede oggi con la Meloni, ieri con Salvini e Berlusconi), per la costruzione innanzi tutto di un potere personale, inevitabilmente a scapito degli alleati. Una posizione che, volendo fare una questione di genere, appare fortemente maschilista e per nulla femminile, annullando così il potenziale innovativo di una leadership-donna.
Ecco che alla fine l’approccio riguardo al rapporto tra forze politiche per il raggiungimento di un fine comune rivela la sua implicazione anche programmatica, cioè manifesta la diversità della visione politica, tra area democratica e conservatrice, riguardo al vivere civile e allo stesso pluralismo delle idee.