Cambiare la Costituzione! Sono 40 anni che i leader politici di tutti gli schieramenti propongono di ovviare alle inefficienze del sistema dei partiti e del loro modo di lavorare/governare modificando la Costituzione che fu promulgata 75 anni fa da una Costituente nata sulle ceneri della tragedia della Seconda guerra mondiale e della dittatura fascista.
Di modifiche – piccole e qualche volta significative – ce ne sono state una ventina, ma non hanno mai intaccato il cuore della Carta quanto all’equilibrio dei poteri, alle funzioni del governo e del presidente della Repubblica e al modo in cui vengono scelti.
Ogni tentativo di modificare profondamente l’assetto trovato nel dopoguerra è fallito. O perché i partiti politici nono sono riusciti a trovare l’accordo sulle modifiche o perché gli elettori hanno bocciato nelle urne le leggi costituzionali che in Parlamento non avevano ottenuto la maggioranza qualificata e dunque andavano sottoposte al giudizio popolare.
Al lungo elenco di politici che puntando il dito sul “sistema che non funziona” offrivano la medicina della riforma costituzionale, si è aggiunta anche Giorgia Meloni, appena nominata Presidente del consiglio dei ministri dopo aver vinto le elezioni dell’ottobre 2022. Con una fantastica giravolta. Se fino al giorno prima di entrare a Palazzo Chigi, la sua soluzione al “sistema che non funziona” era la elezione diretta del Presidente della Repubblica, una volta insediata al governo la sua ricetta è diventata il premierato, ovvero l’elezione diretta del capo del governo.

ANSA/MASSIMO PERCOSSI
A voler essere un tantino sospettosi, visto che lei non ha dato alcuna spiegazione di questo improvviso cambiamento, potremmo dire che Giorgia Meloni, vista l’età e la sua storia politica, difficilmente potrebbe immaginare di poter salire al Quirinale sull’onda di un voto popolare che si esprimerebbe solo sulla persona e non sulla persona sostenuta da un partito e da una alleanza politica. Mentre invece continuare a governare l’Italia con la coalizione che oggi governa potrebbe essere un risultato più facile da raggiungere.
Così, da Palazzo Chigi si è messo in moto il meccanismo di riscrittura di un pezzo importante della Costituzione. Giorgia e i suoi alleati proporranno al Parlamento di votare una riforma che prevede: 1. Diventa presidente del consiglio il capo della coalizione che ha ottenuto il maggior numero di voti alle elezioni politiche; 2. La coalizione che prende il maggior numero di voti ottiene un premio di maggioranze che assegna il 55 per cento dei seggi alla camera e al Senato; 3. Il capo del governo eletto nomina i ministri; 4. Non è possibile far cadere il governo se non attraverso una mozione di sfiducia costruttiva; 5. Se questo avviene a governare è sempre la stessa coalizione e il nuovo capo del governo è solo un membro della coalizione, deputato o senatore; 6. Scompare la figura del senatore a vita, una nomina riservata alla sola scelta del capo dello stato.
Se questo progetto andasse in porto il primo risultato non è la governabilità del paese ma l’alterazione degli equilibri costituzionali sanciti dalla carta, spostando la bilancia a favore del capo del governo. Prendiamo per esempio, il risultato elettorale: un conto è che la coalizione vincente ottenga la maggioranza assoluta nel voto popolare. Ma se, come è sempre avuto la coalizione ottiene una maggioranza relativa, per di più scarsa e di poco superiore alla coalizione avversaria, in presenza anche di un’astensione massiccia al voto, il premio di maggioranza del 55 per cento è un regalo abnorme.
Con la nomina dei ministri nelle mani del capo del governo si toglie una delle prerogative, e fonte di equilibrio, fino ad oggi attribuite al presidente della Repubblica, il quale nomina i ministri su indicazione del presidente del consiglio incaricato. Questo significa che fino ad oggi, il capo dello stato aveva la possibilità di dissuadere il presidente del consiglio dal nominare persone palesemente incapaci, o portatrici di interessi esterni, o più semplicemente non adatte all’incarico. È accaduto? Può darsi, anche perché queste conversazioni sui criteri di formazione del governo sono sempre state riservate.
Quanto alla sfiducia costruttiva. È sicuramente vero che sarebbero più difficili quelle imboscate parlamentari o quegli intrighi interni alla coalizione di maggioranza che nel passato hanno portato a crisi di governo. Ma la soluzione che prevede che il nuovo presidente del consiglio sia scelto sempre all’interno della maggioranza che ha vinto le elezioni, aprirebbe una contraddizione con l’impianto costituzionale voluto. Semplicemente perché chi venisse chiamato a governare al posto della “sfiduciato costruttivamente” non sarebbe stato scelto dagli elettori ma da una parte del Parlamento. Quindi svanirebbe per incanto la ratio su cui si fonda la modifica della Carta.

Il premierato di Giorgia Meloni riduce il ruolo del presidente della Repubblica come punto di equilibrio tra i poteri dello stato e sposta il baricentro tutto su Palazzo Chigi e la coalizione vincente alle elezioni. Al capo dello stato resterebbe solo la firma del decreto di scioglimento del Parlamento. Ma solo apparentemente perché comunque la sfiducia costruttiva mette la vita o la fine della legislatura tutta nel mani del capo del governo.
Infine, il premierato di Giorgia Meloni calato sull’attuale sistema elettorale aggravato da un premio di maggioranza sancito in Costituzione è del tutto squilibrato. Le ultime riforme elettorali, dettate solo ed esclusivamente dal desiderio dei partiti che le hanno via via pensate e approvate, si fonda sul principio che sono i partiti e non gli elettori a decidere chi sarà deputato o senatore, perché con le liste bloccate, è impossibile che l’elettore scelga colui o colei che considera il più adatto o meritevole ad entrare in Parlamento. Ed il primo risultato è stato il calo verticale dell’affluenza alle urne.