L’Ecuador ha votato domenica 20 agosto per il primo turno delle elezioni presidenziali, ma anche per un referendum il cui risultato dovrebbe bloccare le trivellazioni in Amazzonia mettendo fine a una battaglia durata dieci anni.
Al secondo turno delle elezioni andranno Luisa Gonzalez e Daniel Noboa; lui esponente della destra, erede di una famiglia di esportatori di banane; lei candidata del partito socialista ed erede politica del partito Revoluciòn Ciudadana dell’ex presidente Rafael Correa, che vive da rifugiato politico in Belgio dopo una condanna per corruzione a 8 anni in patria. Una campagna elettorale segnata dai dibattiti sulla criminalità che tormenta il paese, e sporca di sangue, con l’assassinio del candidato centrista Fernando Villavicencio alla fine di un comizio. Correa, dal Belgio, ha parlato di un complotto in cui sarebbe stata coinvolta anche la polizia per ostacolare la campagna di Gonzalez.
Intanto però il 60% dei votanti ha votato contro le trivellazioni petrolifere nel Parco Nazionale Yasunì, nel bel mezzo dell’Amazzonia. Era il 15 agosto del 2013 quando l’ex presidente Correa annunciava la cancellazione del progetto Yasunì ITT, un patto internazionale da lui voluto per lasciare sottoterra il petrolio del Parco, l’area protetta più vasta dell’Ecuador, oltre un milione di ettari. Il governo ora voleva avviare lo sfruttamento petrolifero del blocco 43 del Parco, nonostante si tratti di una delle zone con maggiore biodiversità del nostro pianeta, una riserva protetta dall’Unesco e casa per due popolazioni indigene che vivono in isolamento, tagaeri e taromenane.
Il collettivo ambientalista Yasunidos chiese allora il referendum che si è tenuto ieri, 20 agosto, dopo aver superato innumerevoli scogli giuridici; solo una sentenza della Corte costituzionale ha infine consentito che la consultazione si svolgesse. All’indomani della sentenza il ministro dell’Energia Fernando Santos diceva, parlando del danno economico che avrebbe comportato lo stop alle trivellazioni, “sono un miliardo e duecento milioni di dollari l’anno che perdiamo in un paese con enormi necessità”.
Ma dietro lo sfruttamento del Parco c’è tutto un modello di sviluppo che gli ambientalisti contestano. In Ecuador sette zone petrolifere sono in tutto o in parte all’interno dei confini del Parco e in maggioranza sono già state sfruttate ormai da decenni. Il blocco 43, anche detto ITT dalle iniziali delle zone che include (Ishpingo, Tambococha, Tiputini, 162.000 ettari di cui 78.000 nel Parco nazionale) era invece rimasto intatto. Il progetto Yasunì ITT impegnava l’Ecuador a mantenere sottoterra 846 milioni di barili di oro nero. In cambio il paese avrebbe ottenuto un compenso da parte della comunità internazionale pari a 3,6 miliardi di dollari. Ma sei anni dopo, quando Correa decise di mettere fine al patto internazionale, nelle casse dell’Ecuador erano arrivati solo 13 milioni, lo 0,37% di quanto sperato. “Non chiedevamo la carità ma una corresponsabilità nella lotta al cambiamento climatico” aveva detto all’epoca Correa. “Il mondo non ci ha sostenuto”.
Ora il risultato del referendum boccia le trivellazioni petrolifere e potrebbe salvare queste zone preziose per tutto il pianeta e per i gruppi indigeni ecuadoregni; ma la comunità internazionale cosa offre all’Ecuador? Il Parco nazionale Yasunì fu dichiarato riserva della biosfera dall’Unesco nel 1989. Nel 1999 l’Ecuador aveva stabilito al suo interno una zona intangibile (circa il 74% dell’estensione totale) per proteggerla per sempre dallo sfruttamento: per il bene dell’ecosistema e anche degli huarani (di cui fanno parte tagaeri e taromenane), uno dei 14 popoli indigeni del paese, che fino alla metà degli anni Cinquanta vivevano in totale isolamento. Fu allora che furono raggiunti dai missionari dell’Instituto Lingüístico de Verano, che con l’autorizzazione delle autorità li ricollocarono per “civilizzarli” e convertirli al cristianesimo. Guarda un po’: parte del territorio abbandonato fu occupato dalla Texaco. Fu l’inizio della devastazione ecologica delle trivellazioni.
Nel 2008, l’Ecuador redasse una nuova Costituzione in cui l’ambiente naturale veniva riconosciuto come soggetto giuridico e si garantiva ai popoli indigeni una consultazione prima di avviare altri sfruttamenti. Concetti rivoluzionari, che però vennero calpestati nei fatti. Speriamo che il risultato del referendum riesca a fermare davvero le trivelle – ma anche che il mondo decida di compensare Quito e sostenere l’economia del paese.