Il successo di Giorgia Meloni e il governo che si preannuncia segnalano un cambio di rotta nel paese. L’ecatombe di nomi eccellenti è l’immagine esteriore di una svolta. Il parlamento si trasforma, annovera volti nuovi ma fa anche resuscitare il passato più compromesso, indica un nuovo equilibrio tra destra e sinistra.
In una contesa difficile, e di bassa qualità, è lungo l’elenco dei perdenti, sconfitti sonoramente o di poco. Per lo più nel centro sinistra, a causa di una legge elettorale che, senza essere compiutamente maggioritaria, produce solo effetti perversi sulla rappresentanza, e dell’impetuosa avanzata della destra radicale.
Quanto al personale politico vittorioso, dominano vecchie glorie, veterani invecchiati di tante battaglie perse e pronti alla rivincita oppure fulminati dall’emergente verbo estremista. Costoro si ritrovano in mezzo alle new entry, soggetti sconosciuti, novizi che velocemente mettono in sordina origini storiche e vessilli consunti, euforici per l’impresa di essere in prima fila.

Riemergono le vecchie parole d’ordine su fisco, immigrazione, diritti civili, famiglia e aborto, rapporti con l’Europa, che, davanti a tragedie come pandemia, guerra in Ucraina, crisi energetica e ambientale, sembravano obsolete, cadute nel dimenticatoio. Si sperimenta il velo della moderazione verbale per non spaventare e preparare le mosse successive.
Tra il vecchio, già sperimentato con insuccesso, e il nuovo insicuro, fortemente radicalizzato a destra, si colloca, ancora una volta imponente, il macigno dell’astensione, che ormai ha raggiunto la percentuale di circa il 40% degli elettori. Dal 2008 mancano all’appello 11 milioni di voti. Pochi lo ricordano e l’argomento verrà presto riposto tra le cianfrusaglie. Non hanno interesse a richiamarlo i vincitori, soddisfatti per l’avanzata, anche se registrata con un minor numero di partecipanti.
Di più ne accennano gli sconfitti, nel centro sinistra, ma con la vena di nostalgia che vorrebbe intenerire mentre fa rabbia. Costoro vogliono scorgere tra i tanti astenuti dei sostenitori mancati, magari solo di poco, illudendosi solo per questo di poterli arruolare la prossima volta. Dimenticano gli odierni perdenti di interrogarsi sulle ragioni del mancato coinvolgimento di tanti astenuti nel rito principale della democrazia.
Intanto, tra i perdenti, si trova il modo di gigionare per evitare di farsi troppe domande, trastullandosi con le percentuali risicate ottenute, misere in vero rispetto ad ambizioni e necessità, ma gelosamente rivendicate, perché utili in futuro. Magari serviranno a trincerarsi nella difesa di qualche misura (come il reddito di cittadinanza) oppure a giocare un ruolo se, trascorsa la festa iniziale, si prospettasse una qualche stagione degli aggiustamenti.
Una di quelle fasi dove svolgere abili manovre di vertice, da sublimare con la prospettiva nobile dei governi tecnici. Ci si accontenta d’essere carta di riserva una volta che sarà emersa l’incapacità dei nuovi arrivati. C’è sempre una sapienza di palazzo che sopravanza rispetto alla deteriore emotività popolare. Un’intelligenza che solo noi padroneggiamo, sconosciuta al popolino che non ci capisce e non ci apprezza.
Un’interpretazione così spregiativa dell’astensione trascura il fatto che il fenomeno ha varie origini, e che non tutti gli astenuti sono uguali. Ci sono quelli che al voto non sono mai andati per disinteresse. Quelli che non credono alla Stato e alle istituzioni. Quelli che non sanno per chi votare, disillusi e scettici. Che magari si rifugiano nel narcisismo dei social perché la croce sulla scheda è troppo e quegli altri che diffidano in toto del potere pubblico. Del resto non è così chiaro che è inutile andare a votare? La politica è ridotta a “sistema”, impenetrabile e distante, un gioco perverso al quale non conviene nemmeno partecipare.

Se coloro che vanno a votare si illudono invece di essere completamente refrattari a questa sindrome, che mescola sfiducia e amarezza, ebbene proprio la lettura dei passaggi elettorali più recenti li smentisce sonoramente. Inutile interrogarsi sul perché non riesce ad affermarsi la buona politica, la fatica della costruzione quotidiana della democrazia, se la gara, esacerbata e vittoriosa, è tra populismi di segno diverso. Senza alternative dignitose. L’ottimismo imprenditoriale del taumaturgo Berlusconi, la xenofobia della Lega, l’assistenzialismo consolatorio e l’anti-elitismo dei 5 Stelle resuscitati da Conte grazie al Sud, il sovranismo della sorella Meloni.
Difficile sottrarsi alla suggestione di vedere nel voto all’estrema destra, l’unica non coinvolta nel governo recente del paese, un’altra (l’ultima?) carta del mazzo da sperimentare per uscire dall’impasse. La politica è continua ricerca di un demiurgo, un salvatore della patria, un leader, una forza, cui affidare le sorti incerte del paese.
Nella delusione senza fine, pur di gettare il cuore oltre l’ostacolo, ci vogliono coraggio e disinvoltura. Si è davvero disposti a tutto, o costretti a farlo, tante sono la speranza e la disperazione. Si può arrivare a mostrare indifferenza verso il fascismo storico, giudicare secondario in Fratelli d’Italia quel bagaglio di memorie, invero mai rimosso, rimasto paesaggio sentimentale, e non esigere – qualunque sia la provenienza – l’adesione ai principi della democrazia liberale, ai suoi istituti, alle sue coordinate strategiche fatte di adesione ai valori dell’Occidente, in contrapposizione agli strani esperimenti di democrazia autoritaria in corso nell’Ungheria di Orban.
Il congedo che si preannuncia riguarda le persone bocciate dal voto e dall’inadeguatezza, pochi sono i rimpianti, quanto soprattutto le politiche di questi anni, che non sono riuscite a costruire un’alternativa a questa destra, qualcosa di credibile e affascinante per un popolo che ha bisogno di tornare ad avere fiducia nelle istituzioni.
Mentre i vincitori di oggi sfoggiano sorrisi smaglianti per celebrare il momento, i perdenti, a cominciare dal Pd, rischiano di essere catturati dall’ennesimo psicodramma autolesionista, di non avvertire la gravità della situazione, e di perdersi nel consueto falò dei segretari, rito sacrificale per illudersi di cambiare tutto senza cambiare nulla, oppure di trastullarsi nel rovello delle possibili alleanze (i 5 Stelle, Calenda o persino Renzi, con i quali non è stato possibile concludere nulla?) scambiando il dito per la luna.
Se il Pd vince a Roma centro ma perde a Viterbo dove prevale quel tale che voleva cambiare il nome del parco pubblico Falcone e Borsellino intitolandolo al fratello del Duce; se l’avventuroso Calenda prende il 20% a Milano ma solo il 4% in Calabria; se i 5telle fanno incetta di voti in certe aree del sud con il miraggio dei sussidi di Stato e si fermano al 5% nel Nord più evoluto: all’evidenza c’è una questione profonda che le elezioni non hanno affrontato. È il problema della rappresentanza di quanti sono esclusi o ai margini; di coloro, a partire dai giovani, che non si sentono riconosciuti nelle loro ragioni e rivendicazioni legittime. E che quindi, se proprio vanno al seggio, scelgono la protesta. Stavolta è davvero l’ultimo tentativo per dire no al potere pubblico percepito come sistema.

Al cospetto di tutto ciò, il riformismo liberale è atteso da una strada lunga e impervia. Ci vorranno cervello ma anche cuore. Il punto dal quale partire dovrebbe essere l’ascolto della realtà. Un paese che veleggia su un debito pubblico di tremila miliardi, e che non è fallito solo per l’intreccio di colleganze europee, fa davvero paura. Non meno preoccupanti sono gli altri record europei: l’Italia è il paese che fa meno figli e non ha politiche sufficienti per le famiglie, quello che ha più evasori e non sa individuarli, quello che non riesce nemmeno a spendere il denaro nei cantieri ma lo usa solo in sussidi, e magari se ne vanta.
Servirebbe, senza retorica, un investimento nella libertà, nella capacità di impresa e di sviluppo economico, nelle politiche per il lavoro e per una scuola più moderna. Occorrono parole che offrano speranza e visione, un’idea di ciò che vorremmo essere perché il futuro sia migliore.
La responsabilità di governo non rende elettoralmente certo, ma solo perché appare senza anima, priva di identità, e rifiuta di misurarsi ogni giorno nel coinvolgimento della gente. L’esito è scontato. Non c’è la percezione che si stia lavorando per il bene comune, che ci sia un impegno per cambiare le cose. Anche quando si opera bene, il consueto riflesso della casta getta un’ombra funesta su quanto fatto, come è avvenuto con il governo Draghi. Allora non è solo questione di unire le forze, bisogna sapere in quale direzione andare, e poi cercare compagni di viaggio.
L’inadeguatezza delle nomenclature è reale, ma riflette l’insufficienza dei “marchi”, cioè dei partiti, oggi contenitori inadatti alle nuove sfide e da reinventare. Un problema che riguarda tutti, mascherato dallo stordimento attivato da promesse irrealizzabili e annunci roboanti.
Per quanti osservano il nuovo corso, e guardano preoccupati alla crisi di identità che attraversa il riformismo liberale, in primo luogo il Pd, forse va segnalata una possibile via di uscita: in un contesto arido non è facile trovarle, ma occorrono parole giuste per congedarsi dal fallimento di una stagione troppo lunga, e avviare un nuovo inizio. È la strada complicata del “consenso ragionato” su un’idea di democrazia riformista.
Discussion about this post