È stata una lunga e intensa conversazione quella che il presidente statunitense Joe Biden e il suo omologo cinese Xi Jinping hanno avuto durante la mattinata americana (serata inoltrata in quel di Pechino), sesto confronto telefonico da quando il commander-in-chief democratico è approdato alla Casa Bianca.
Due ore e mezza di discussione (dalle 8:33 ET alle 10:50) durante i quali i leaders delle due principali potenze globali hanno analizzato lo stato dell’arte delle relazioni Washington-Pechino, entrate in una sempre più rapida rotta di collisione a causa delle crescenti ambizioni del Dragone nella regione indo-pacifica e dal concomitante timore statunitense che il proprio ruolo (e il proprio sistema di valori internazionali) vengano pesantemente ridimensionati.
I due capi di Stato hanno riconosciuto la presenza di alcune divergenze di fondo sul sistema globale. A partire dalla possibile visita della presidente della Camera USA, la dem Nancy Pelosi, a Taiwan il prossimo agosto. Le autorità cinesi considerano l’isola come un territorio “ribelle” destinato ad essere annesso (manu militari) alla Cina continentale nel prossimo futuro. Per questo motivo, secondo i media cinesi Xi avrebbe detto a Biden che “chi scherza col fuoco finisce per bruciarsi“, invitando gli USA a rimanere fuori da quella che Zhongnanhai derubrica a questione interna.
Non solo: nelle scorse ore i cinesi hanno avvertito gli statunitensi che i caccia militari di Pechino non rimarranno a guardare e potrebbero “scortare” in volo l’aereo della congresswoman. Il Pentagono, peraltro contrario all’iniziativa di Pelosi, ha chiarito che a fare compagnia ai mezzi cinesi potrebbero esserci anche alcuni jet supersonici statunitensi a protezione del vettore della Pelosi. L’ultima visita di alto livello nell’isola contesa risale al 1997, quando a recarsi a Taipei fu il repubblicano Newt Gingrich, anch’egli speaker della Camera.
Il dossier taiwanese è sicuramente la patata più bollente, dopo che due mesi fa la Casa Bianca ha promesso a Formosa il pieno sostegno militare statunitense in caso di attacco cinese – pur continuando a riconoscere la Repubblica popolare cinese (quella di Pechino) quale unica Cina legittima tra le due.
A tenere banco è poi anche la guerra in Ucraina, in relazione alla quale finora Pechino ha mantenuto un basso profilo – non condannando apertamente l’aggressione russa, come hanno fatto gli occidentali, ma nemmeno sostenendo attivamente l’alleato Putin. Una scelta dettata certo dalla diplomazia ma soprattutto dal calcolo commerciale: a differenza di quella russa, l’economia cinese è infatti enormemente più intrecciata a quella occidentale, nonostante i tentativi di decoupling avanzati dall’amministrazione Trump. Schierarsi apertamente a fianco del Cremino significherebbe esporsi al fuoco incrociato delle sanzioni, generando uno shock epocale per l’economia globale.
Capitolo spinoso è anche quello dei diritti umani, con le autorità americane che hanno più volte contestato a Xi e ai suoi predecessori gli abusi sistematici compiuti nella regione nord-orientale dello Xinjiang ai danni degli uiguri. Come gran parte della comunità occidentale, Washington sostiene che i componenti della minoranza musulmana siano internati in veri e propri campi di detenzione per essere “rieducati”, con molte donne che sarebbero state sterilizzate – circostanza che ha spinto l’allora segretario di Stato Mike Pompeo a definire le vessazioni cinesi come un “genocidio”.
Sfondo del contrasto USA-Cina è l’Indo-Pacifico, regione del mondo dove secondo Biden “verrà scritta gran parte del futuro nei prossimi decenni“. L’Asia orientale è divenuta teatro del “grande gioco” che vede ambedue le superpotenze formare alleanze più o meno mobili per fronteggiare l’opposta sfera d’influenza politico-economica, provocando però non pochi dilemmi a quegli Stati che non vogliono/possono effettuare una netta scelta di campo.